Nelle prime pagine del Grande Gatsby, Nick leva gli occhi verso una fila di finestre illuminate e pensa: «Ero dentro e fuori, simultaneamente incantato e respinto dalla inesauribile varietà della vita». Quel gesto, e quella capacità di guardarsi da fuori, li ritroviamo nel Fitzgerald di «Crepuscolo di uno scrittore», uscito nel 1936 su «Esquire». A differenza di quanto avviene nel «Crollo», Fitzgerald ha il distacco necessario per descrivere una giornata della sua vita alla terza persona. Non più affascinato dalla inestinguibile varietà della vita, nel guardarsi allo specchio vede in sé solo la scoria di un sogno. Il racconto è tra i più toccanti nel suo spietato ritratto di un uomo malato, che si stanca per niente nonostante abbia da poco compiuto i quarant’anni. Fitzgerald fatica ormai a scrivere anche solo poche righe, qualcosa che gli era accaduto già all’inizio della carriera. Anche ora immagina frammenti di racconti che non scriverà, gli vengono mille idee, fantastica: l’autore finisce là dove ha cominciato, come Basil, protagonista di un ciclo di storie sull’adolescenza, il ragazzino con molte fantasie a cui mai dava corpo.

«Crepuscolo di uno scrittore» è una delle tessere più vivide di quell’autobiografia per racconti che è Cento false partenze (traduzione di Giorgio Monicelli, Belleville editore, pp. 268, euro  16,00), apparsa negli Stati Uniti nel 1957 a cura di Arthur Mizener, il primo biografo di Fitzgerald, e uscita per Mondadori nel 1966 con il titolo Crepuscolo di uno scrittore. Il pregio dell’edizione sta nell’aver rimesso in circolazione, nella traduzione originale di Monicelli e nella sequenza cronologica voluta da Mizener, un libro assente dal 1992 e nell’aver ripristinato la composizione originaria della raccolta, la cui genesi è accuratamente ricostruita da Roberta Cesana nell’introduzione.
Fra il brio e la naturalezza di tre delle storie dedicate a Basil – «Una serata alla Fiera», «Farsi strada» e, soprattutto, «Basil e Cleopatra» sono tra i racconti più freschi non solo di questo volume ma dell’intera produzione di Fitzgerald – e le atmosfere crepuscolari dei testi autobiografici scritti negli ultimi anni, che malinconicamente chiudono il cerchio, il volume colleziona racconti, testi fra il saggio e l’autobiografia, e pure una recensione del libro di esordio di Hemingway, i cui racconti Fitzgerald subito colloca accanto a quelli di Gertrude Stein e Sherwood Anderson. Sono storie perlopiù di sconfitte, quelle di Cento false partenze, di rimpianti, di umiliazione e amarezza, qualcosa che Fitzgerald conosceva bene: «Che sia qualcosa accaduto vent’anni fa o semplicemente ieri, devo partire da un’emozione che sia vicina alla mia esperienza e che io possa capire».

Uno dei testi più interessanti è senz’altro Un viaggio all’estero. Nel narrare la storia dei Kelly, coppia di espatriati che entra in crisi nel corso dei viaggi in Africa e in Europa, Fitzgerald rende evidenti i segni della minaccia nell’apparizione, a più riprese, di una coppia di coniugi che i Kelly sentono affini ma con cui non stabiliscono legami.

Alla fine, durante un soggiorno in Svizzera motivato dalla salute ormai precaria di entrambi i Kelly, la ricomparsa della coppia misteriosa porta con sé un lampo di luce, perché la protagonista riconosce nei due se stessa e il marito. Sconfinamento nel sovrannaturale, variazione sul tema del doppio o, più verosimilmente, una proiezione? Come in Giro di vite, lo struggente racconto di Henry James, la storia non lo dirà e lascerà tutto avvolto in quella vaghezza che rende unica la prosa di Fitzgerald.