Ma quale cerchio magico? «Qui di magico ci sono soltanto io», assicura Berlusconi. Lui che, «dopo vent’anni di guerra che mi fanno», è ancora lì «vivo, vegeto e con tanta voglia di combattere». Che l’ex cavaliere sia un combattente che dà il meglio di sé proprio quando si trova con le spalle al muro lo hanno ormai capito tutti, e molti a loro spese. Per quanto terrorizzato sia dalla minaccia dei domiciliari, che gli renderebbero impossibile proseguire con l’attività politica, si batte davvero, con l’obiettivo di portare a casa un risultato elettorale cospicuo, che renda impossibile mettere lui e il suo partito fuori gioco.

Però proprio qui le difficoltà si moltiplicano. Perché il cerchio magico c’è davvero, come spiega senza mezzi termini dai microfoni della Zanzara Vittorio Feltri, esplicitando un paragone già venuto in mente a molti, quello col triste Senatur dell’ultima e decadente fase prima del crollo: «Berlusconi sembra Bossi, speriamo con esiti diversi. Vive recluso in casa ostaggio del cerchio magico, e questo non giova né a lui né al partito».

Il cerchio magico è composto dalle poche persone di cui il re quasi spodestato e assediato si fida. Però non è da loro che arrivano i voti, bensì da quei dirigenti che la corte ristretta vorrebbe mettere fuori gioco. Così chiudere la partita diventa impossibile e Berlusconi, come sempre in questi casi, rimanda la decisione finale. Il durissimo messaggio di lunedì, l’appello a mettere da parte «le ambizioni individuali», cioè a mettersi da parte, è rimasto inascoltato, anche se non da tutti. Certo, il capo ha cercato come sua abitudine di accontentare tutti nominando un ufficio politico che pare un’assemblea di massa, nella speranza di rabbonire i capibastone messi fuori dalle liste per le europee. Ma non sempre c’è riuscito. Le fedelissime, come Mariastella Gelmini, si sono uniformate subito: «Una certa informazione ci dipinge in modo falso e farsesco. Da noi non si fanno guerre né ci sono cerchi magici». Denis Verdini ha scelto di fare buon viso a cattivo gioco. Tanto sa bene che gli umori del capo sono mutevoli e quel che è vero oggi non lo sarà domani. Ma per Claudio Scajola e Raffaele Fitto le cose stanno diversamente. Loro sulla candidatura insistono e puntano i piedi, per motivi diversi. Scajola perché, dopo l’assoluzione, non vede motivo di restare ai margini, e la sua insistenza pare irriti assai l’assediato di Arcore. Fitto perché la sola possibilità che gli rimane di contrastare l’attuale favorito, Giovanni Toti, è proprio fare appello al popolo votante. Se alle europee incasserà, come è probabile, molte più preferenze dell’ex direttore del Tg4, preferirgli lo sconfitto non sarà facile. Dunque al divieto del capo di candidare i parlamentari risponde con una sfida: «Sono pronto a dimettermi da deputato se sarò candidato alle europee».

Tra tutti i nomi che ambivano alla candidatura europea, il signore pugliese delle preferenze è probabilmente quello che più di ogni altro Berlusconi vorrebbe tenere fuori dalle liste: sa che è lui il vero rivale del “suo” Toti e che il successo elettorale è l’arma sulla quale punta. Però, caduto l’alibi del “dovere morale” di non mettere in lista i parlamentari, resistergli sarà difficile, anche perché senza di lui il rischio di scendere sotto il fatidico 20% sarebbe fortissimo. La partita è aperta, ma è probabile che alla fine, tra i capolista, insieme a Toti e Giulio Tremonti ci sarà anche di Fitto.