Sul piano internazionale sta tornando il tema fiscale. La spesa pubblica messa in campo per fronteggiare la crisi economica del 2020 sta facendo lievitare deficit e debiti pubblici globali. La ripresa economica in corso è frutto di un rimbalzo, ma anche di un intervento statale e delle banche centrali senza precedenti. Il problema di come rendere sostenibile il debito appare sempre più centrale. Ora varie proposte e tendenze si esprimono contemporaneamente, dal parziale congelamento del costo del debito attraverso la politica delle banche centrali al tasso d’inflazione crescente che alleggerisce la pressione rendendo negativi i tassi d’interesse reali.

In questo quadro alcuni paesi stanno avanzando, assai timidamente, proposte che prevedono un parziale inasprimento della pressione fiscale su grandi imprese e grandi ricchezze. L’accordo trovato tra 136 paesi sulla tassazione minima globale, pur attestandosi su una misera aliquota del 15% frutto di una mediazione al ribasso, rimane in ogni caso il segnale di una tendenza di fondo. Il fatto che una soglia “irlandese” garantisca una parzialissima crescita dell’imposizione, è Il segno dell’incredibile livello di elusione fiscale raggiunto in questi decenni dalle grandi corporation. È il frutto di quella concorrenza fiscale che ha fatto le fortune dei grandi capitali.

«Attrarre i capitali esteri» è stato il mantra della globalizzazione neoliberista. In nome di tale obiettivo si è giustificata la riduzione delle imposte sui grandi capitali che, come ha ricordato recentemente Alfonso Gianni, ha portato la tassazione sulle imprese a livello mondiale dal 40% medio del 1980 al 24% di oggi. Alzare i profitti per via fiscale avrebbe dovuto attrarre capitali, quindi gli investimenti, che poi avrebbero prodotto occupazione e salario. Peccato che tali politiche abbiano raggiunto solo il primo obiettivo, al netto di alcuni paesi che trasformandosi in paradisi fiscali hanno tratto qualche vantaggio da questa strategia.

La sensazione è che sia in corso un cambiamento di orientamento di parte dell’opinione pubblica statunitense, ma anche che una parte della classe dirigente si stia rendendo conto della necessità di una parziale correzione per la tenuta del sistema. Vanno in questa direzione diversi provvedimenti che in questi giorni vengono branditi come altrettanti spauracchi dai quotidiani della destra nostrana. In Nuova Zelanda viene aumentata l’imposta sulle persone con redditi elevati contestualmente all’incremento del salario minimo. Nel Regno Unito conservatore vengono approvati 40 miliardi di nuove imposte in larga parte a carico delle imprese. Biden ha appena varato un piano da oltre 1000 miliardi di dollari di investimenti aumentando contestualmente le imposte sulle imprese con oltre un miliardo di profitti e sui redditi personali superiori ai 5 milioni di dollari. Tali provvedimenti rappresentano una parzialissima inversione di tendenza, che nel caso degli Usa va a compensare i provvedimenti di segno opposto dell’epoca Trump. Esistono, inoltre, tendenze di segno contrario, come nel caso dell’Australia e di parte dell’Ue, dove si punta a un’ulteriore detassazione dell’impresa secondo il vecchio adagio. Emerge così un quadro contraddittorio.

Appare chiara, però, l’apertura di una frattura di consenso e credibilità delle ricette neoliberiste che attraversa l’opinione pubblica e le classi dirigenti anche di schieramenti diversi. L’Italia si candida con la legge finanziaria in discussione ad essere avanguardia tra i paesi che si tengono lontani dall’inasprimento delle imposte sulle grandi ricchezze. L’Italia ha una elevatissima pressione fiscale, ma una crescita delle imposte sui grandi patrimoni e i grandi redditi permetterebbe persino una riduzione della pressione fiscale sul lavoro. Come s’intende affrontare il problema del debito? Aspettando un miracolo economico? Rilanciando la folle logica della Flat Tax? Oppure attaccando diseguaglianze e rendita?