La firma lunedì scorso dell’accordo tra Italia e Svizzera per lo scambio di informazioni in materia fiscale è stato salutato da molti commentatori come storico, visto che da anni il nostro paese cercava di ottenerlo con il suo confinante e ben noto paradiso fiscale. In questo, secondo stime prudenziali, risiedono 200 miliardi di euro di capitali italiani, ma probabilmente sono molti di più. Senza dubbio l’accordo è più trasparente e “giusto” rispetto al ben noto scudo fiscale del ministro Tremonti dell’era Berlusconi, che garantiva l’anonimato agli evasori italiani che facevano outing con l’Agenzia delle entrate pagando un’aliquota irrisoria ed unatantum inferiore al 5 per cento. Una vergogna, che alla fine fece rientrare poco più di 30 miliardi di euro in Italia – per poi forse riuscire subito – sui 90 segnalati, e ben pochi spiccioli nelle casse dell’erario.

Il governi Renzi si è invece mosso sul solco tracciato dai recenti accordi in sede G20 ed Ocse per la lotta all’evasione ed elusione fiscale, di fatto strappando un meccanismo di scambio di informazioni alla Svizzera (ossia le autorità elvetiche non potranno più opporre il segreto bancario alle richieste dell’agenzia delle entrate nostrana) che diventerà automatico dal 2017. Chi detiene illegalmente capitali in Svizzera sarà subito scoperto, a partire dal momento in cui aprirà conti bancari oltre frontiera. Bene, si dirà, era ora, ma in realtà la Svizzera si è dovuta piegare alla volontà della comunità internazionale – e non della sola Italia – al riguardo; soprattutto dopo che nel 2008 l’Fbi americana violò il suolo svizzero andando a confiscare fisicamente i computer della banca svizzera Ubs e così conoscendo i nomi di migliaia di evasori statunitensi.

Proprio su quanti capitali rientreranno in Italia si gioca la vera sfida. E su questo anche nell’establishment e nel governo gli accenti sono diversi. Per Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, ogni euro che entrerà, anche uno solo, sarà pur sempre guadagnato. Il primo ministro Renzi non poteva che twittare il rientro di miliardi di euro nei prossimi mesi. La verità sta nel meccanismo che è stato adottato per il presunto rientro di capitali degli evasori italiani aiutati dagli spalloni di un tempo o i trader di oggi. Ossia la voluntary disclosure: chi segnala entro la fine di settembre i capitali esportati, pagherà le imposte previste dal 2010 al 2013, beneficiando di sconti sulle sanzioni e in molti casi di un salvacondotto legale. Ma in caso di violazioni con rilevanza penale potranno essere inclusi anche gli anni dal 2006 al 2009 per effetto del raddoppio dei termini.

Che significherà tutto ciò in soldoni alla fine della fiera? Probabile i più arditi, e in Italia non mancano gli imprenditori e i ricchi “internazionalizzati”, potrebbero nei prossimi mesi spostare i propri capitali in altri paradisi fiscali. Nonostante il cerchio si stringa al livello internazionale sulle giurisdizioni poco trasparenti, in realtà le falle non mancano. Il governo si difende con la stipula prossima ventura di accordi con il Lichtenstein, il Principato di Monaco, e la Città del Vaticano. Ma se si va fuori dell’Unione europea i paradisi fiscali non mancano, soprattutto nell’ex Commonwealth britannico, con stretti legami con la potente e ancora opaca City di Londra, per alcuni il vero paradiso fiscale mondiale. Va aggiunto che oggi queste giurisdizioni non sono usati solo per riciclare in chiaro denaro sporco, ma talvolta funzionano alla rovescia. Ad esempio servono per spostare fondi e pagare tangenti dall’estero a politici o funzionari nazionali, come dimostrano recenti casi perseguiti dalla magistratura italiana. Tangenti pagate addirittura usando strumenti finanziari complessi, quali i prodotti derivati, difficili da tracciare e perseguire.

In breve esiste ancora una rilevante area di “a-legalità” a livello internazionale. Lo sanno bene le aziende multinazionali che continuano con le loro pratiche di spostamento dei profitti tramite i paradisi fiscali ad aggirare le tassazioni nazionali – per alcuni analisti anche per importi che raggiungono i mille miliardi di dollari l’anno. Contro ciò si fa ancora poco; ad esempio lo stesso governo italiano è molto reticente a richiedere che le imprese multinazionali italiane presentino bilanci disaggregati paese per paese da cui si capisca quante tasse pagano e dove a fronte di ingenti ricavi.

Quanto sta succedendo in Grecia in questi giorni dimostra che solamente la reintroduzione di un controllo dei movimenti di capitale – abbandonato dagli anni ’80 con la globalizzazione liberista – può dare agli Stati la vera arma per combattere l’evasione ed elusione fiscale. Altrimenti finirà, come ostentano i ricchi armatori greci, che all’arrivo della patrimoniale annunciata da Atene i loro capitali e navi andranno al sicuro nei porti tedeschi. E non ci sarà scambo di informazioni o voluntary disclosure che tenga in un mercato globale dei capitali senza controllo.