Non c’è nulla di eroico nel Neil Armstrong di Damien Chazelle, anche se l’uomo è una leggenda che ha sedotto nel tempo molte generazioni, anche quella del regista (classe 1985), il primo essere umano a mettere piede sulla luna, a volare nello spazio, a rendere «reale» un sogno di secoli, l’immaginario di poeti e lunatici che lassù, su quel punto luminoso proiettavano fantasie e storie, creature misteriose, viaggi, maree, moti del cuore, amori (e cervelli) perduti. E l’America – grazie a lui – ha affermato ancora una volta la sua grandezza, il Paese che ha vinto il conflitto mondiale e sconfitto i nazisti, ha battuto il «pericolo comunista» nel refrain della Guerra fredda agli occhi del mondo. Poco importa se poi altre leggende hanno insinuato il dubbio che fosse tutto un «fake», quel filmato che lo mostra galleggiare nel vuoto, e chissà, forse persino l’allunaggio.

In fondo: è cambiato qualcosa davvero? La conquista è stata un nuovo orizzonte per l’umanità o piuttosto il gesto costoso – pagato a prezzo di vite prima che di denaro – di una supremazia utile a mettere in sordina qualcos’altro? Una nuova frontiera, un altro mito, e poi? In fondo la luna è più bella vista da lontano di quel deserto di sassi polverosi. Trying to kiss the Moon.

First Man ha aperto ieri la Mostra del cinema numero 75 che ha scommesso di nuovo sul regista di La La Land (sei premi Oscar) per l’inaugurazione. E in effetti quello di Chazelle è il titolo perfetto, sintesi riuscita di un cinema «da pubblico» con gli attori giusti – a cominciare dai protagonisti, Ryan Gosling e la Regina Elisabetta di The Crown Claire Foy – una storia popolare che emoziona, appassiona, commuove, e al tempo stesso con l’intelligenza di celare tra le sue immagini un sentimento contemporaneo, che sposta gli anni Sessanta in cui si svolge al nostro tempo.

Chazelle, che ha lavorato sul libro di James R.Hansen non cerca l’epica del biopic celebrativo – Armstrong è morto nel 2012 e da quel 20 luglio, quando insieme a Buzz Aldrin sbarcò sulla luna il prossimo anno sarà il cinquantenario – ma sposta la narrazione sull’uomo Armstrong, e sugli anni che precedono la missione di Apollo 11. Sono le «pieghe» di un privato che lo interessano – il racconto si ferma infatti proprio al 1969 con il ritorno sulla terra – che poi è anche dove può mettere ciò che è suo, lo sguardo del presente in cui il futuro non esiste più. Non come almeno lo immaginavano quegli astronauti, con una strana innocenza nonostante tutto, in quell’America degli anni sessanta da cui sembrano separati, «alieni» e che nelle case entra soltanto attraverso le voci del bianco e nero della tv.

Tutto comincia nel 1961, nel deserto di Mojave in California, Armstrong lotta con l’atmosfera, il suo velivolo cade ma lui si salva. Ha una famiglia, la moglie compagna di università che – dirà poi a un’amica quando lui è già alla Nasa voleva una vita normale – due figli, un bimbo e una bambina adorata, bionda e tenera, Karen. Ma la piccola è ammalata, ha un tumore, una cosa che nessun pianeta dovrebbe permettere: lui la veglia, la segue, annota le cure e le reazioni ma la malattia vince. È allora che lui decide di presentarsi alla Nasa, di entrare nel programma spaziale, c’è bisogno di gente brava e preparata, l’Unione Sovietica è in vantaggio, Gagarin, lo Sputnik, l’America rischia di perdere in immagine, devono vincere anche stavolta (era anche uno dei motivi di The Shape of Water del quest’anno giurato Del Toro).

Nuova vita, altre casette tutte uguali col giardino di mogli e biscottini, controllo e nevrosi, figli che crescono, lacrime e lutti. I mariti sono via, presi da quella frenetica ossessione, le mogli aspettano, si arrabbiano, preservano quella barriera sottile tra gli uomini e la realtà. Armstrong è silenzioso, chiuso, le lacrime le nasconde, lunatico anche lui coi suoi improvvisi scatti, la ritrosia, la bimba che è sempre nel suo cuore di cui non ha parlato mai più con nessuno. È lei che lo spinge lassù, lei che col ditino indicava il cielo mentre la teneva in braccio? È lei che cerca come un nuovo Astolfo sul quel pianeta lontano, mentre fluttua nell’assenza di gravità tra le immagini di una vita, nel rewind dei ricordi che somiglia a un filmino familiare?

Un comando della navicella è il ciuffo di capelli della bambina addormentata, i giochi insieme, la cura della sua fragilità. La sconfitta, il senso di colpa. L’America intanto cambia, esplode, c’è la guerra in Vietnam, i ragazzi bruciano la cartolina di chiamata all’esercito, marciano per i diritti civili, JFK e Robert Kennedy con le loro sfide democratiche vengono uccisi. Il programma della Nasa costa milioni di dollari, «l’uomo bianco va sulla luna» gridano gli african american, non ci sono astronauti neri. La luna e la sua conquista diventano una vittoria, l’America ce l’ha fatta, è grande, tutto il resto non conta. Come sempre. E forse le illusioni sono finite per sempre.

È un film pieno di malinconia First Man, lo era anche La La Land, nello scontro tra le sliding doors della vita ma qui a essersi perduto è qualcos’altro, l’idea di un cambiamento ancora possibile, di un futuro non solo spaziale o fantascientifico, di sfide e battaglie che possono trasformare il mondo. Sulla luna il protagonista non trova quello che cercava e il suo sguardo sperduto dietro al vetro della «quarantena» proietta la consapevolezza amara del nostro tempo.