È scomparso Oscar Mammì, l’allora ministro delle Poste e Telecomunicazioni che diede il nome alla legge 223 del 1990. Vale a dire la pseudo riforma del sistema radiotelevisivo che sancì la resa incondizionata al Re Media di Arcore. Caso unico al mondo insieme al Messico, si permetteva ad un singolo soggetto di controllare tre reti televisive nazionali. Non i giornali, perché sul punto degli incroci stampa-tv si impuntò – e non solo lui – Ciriaco De Mita. Quella normativa concludeva un lungo ciclo di scontri, veri o finti che fossero, già segnati a favore di Berlusconi dai decreti imposti da Bettino Craxi per salvare le reti del Biscione, e ratificati dalla legge 10 del 1985.

La Mammì divenne presto il simbolo negativo della incapacità di regolamentare un settore decisivo con adeguate misure antitrust. Negli altri paesi europei la scelta fu di limitare ad uno i canali di proprietà. «A network, a person» , ripeteva Andrea Barbato, assai impegnato a spiegare che l’Italia sarebbe uscita dal moderno villaggio globale con la bardatura medioevale in discussione. Fu pure l’inesorabile premessa della famosa «discesa in campo» del tycoon della Brianza, avvenuta poco più di tre anni dopo. Le reti della Fininvest (successivamente Mediaset) costituirono la colonna sonora della cavalcata verso il primo governo targato Forza Italia. Basti ricordare il tg di Emilio Fede, ma soprattutto fiction e telenovelas che introdussero un vero e proprio modello culturale. L’approvazione della legge Mammì costò al presidente del consiglio Andreotti una mezza crisi, con le dimissioni di ben cinque ministri democristiani, tra i quali Sergio Mattarella. Qualcosa di profondo cambiava nella politica e nella cultura di massa, e lo spartiacque fu proprio il testo a firma Mammì.
Tuttavia, la vicenda merita almeno due specificazioni. La prima, forse scontata ma da ribadire, riguarda il ruolo effettivo del ministro. Colpevole fino a un certo punto. Le grandi manovre, infatti, erano condotte dalla maggioranza della Dc e dal Psi, con il titolare del dicastero non certamente innocente. Però non primo attore. Il secondo chiarimento, non proprio uno scoop ancorché scarsamente noto, si riferisce all’articolato originario progettato da Mammì, dove Rai e Fininvest perdevano la pubblicità in una rete a testa. Antitrust a metà, ma meglio di niente. Naturalmente, la stesura iniziale rimase nei cassetti, mentre la proposta formale arrivata in parlamento vanificava persino quel piccolo tentativo.

È doveroso ricordarlo, per rendere almeno un po’ diversa la vulgata su un dirigente importante e stimato del Partito repubblicano, laico integrale dai modi spontanei e simpatici. Si considerava un riformista e, rispetto alle mode successive della seconda Repubblica, era assai meno moderato. La pipa alla Maigret accarezzava i discorsi di una persona dalla notevole cultura politica. Ci siamo odiati cordialmente, per via della brutta legge, ma con umano rispetto. «Vincenzo, tu non capisci nulla di tv» mi disse davanti ai gruppi parlamentari della Camera un certo giorno. «Siamo almeno in due», risposi. Una stretta di mano, un sorriso.