Di ritorno da Gerusalemme, nella sua breve sosta a Roma nel febbraio del 1857, Herman Melville scoprì con sorpresa che copie di un ritratto di Beatrice Cenci – un presunto Guido Reni – ospitato alla Galleria Corsini, dove Melville si recò, erano in vendita presso bottegucce di antiquari per pochi soldi, quasi come un musivo «ricordino» romano: «mi offrono una Cenci a 4 dollari». Beatrice era nota nell’Ottocento grazie a quel celebre dipinto (una Sibilla à la Domenichino?), reso ancora più celebre dalla fonte che le aveva ridato vita: il dramma The Cenci di Percy Bysshe Shelley, apparso nel 1819. Ci fu una rinomata traduzione di Adolfo de Bosis nel 1916, rinnovata solo nel 1991 da S. Gori, e adesso (ma già nel ’95) da Francesco Rognoni nel secondo dei due «Meridiani»-Shelley da lui curati: Teatro, prose e lettere (traduzioni di F. R., Franco Lonati, Massimo Mandolini Pesaresi, Valentina Varinelli, Mondadori, pp. 1326, euro 80,00).
Ci viene riproposto così, tra altre opere di Shelley, questo fosco fattaccio della torbida Roma di fine Cinquecento, relativo a eventi di sangue a danno dell’infame conte Francesco Cenci, autore dello stupro perpetuato sulla propria figlia Beatrice, da lui insidiata con abusi, confluiti poi in un sospetto di incesto e, quindi, nell’assassinio del conte che, in nome del Papa Re – Clemente VIII –, fu punito con l’esecuzione dell’unica vittima, la parricida Beatrice, decollata, assieme a altri famigliari (complici del delitto) sulla pubblica piazza di Castel Sant’Angelo davanti a un mare di folla, nella quale si mescolavano Caravaggio e Orazio Gentileschi con la piccola Artemisia. Sul volto della Beatrice del ritratto il pittore pare penetrare il pathos supplichevole di una figlia attonita, impietrita in uno sguardo languido, dolente e sibillino, reso ancora più terso dal turbante bianco che le nasconde i capelli. Per Shelley (e per Melville?) l’incesto era una specie di «family romance»: al di là delle tracce biografiche, circola in Matilda di Mary Shelley e in Pierre del baleniere americano.
La forma drammatica non era il forte di Shelley, ma questo dramma – su modello elisabettiano, ci dice Rognoni, con precisi richiami a Shakespeare – ebbe il vigore di consegnare il suo nome a un’inscalfibile fama ottocentesca (e poi novecentesca); da Stendhal a Hawthorne, Dumas (padre), Guerrazzi … si possono facilmente elencare seguaci di Shelley, che leggeranno il play ri-puntando sull’‘innocenza’ di Beatrice. Al puritano Nathaniel Hawthorne verrà qualche dubbio su tale assunto, poi placato, dall’esame degli occhi della ritratta che pare còlta nell’atto di vedere ciò che non deve vedere, o subire, perdendo così, per felix culpa, l’innocenza.
Quando lo Shelley ventisettenne si appassiona a lei, egli aveva alle spalle un considerevole curriculum di elaborazioni politico-filosofiche e di scrittura creativa (Queen Mab, Alastor, Ozymandias, La rivolta dell’Islam, l’Inno alla bellezza intellettuale, Difesa della poesia, Zastrozzi) e, prima di naufragare a Viareggio nel 1822, aveva da partorire il meglio della sua produzione poetica (Adonais, l’elegia per la morte di Keats, l’Epipsychidion, l’ode al Vento d’0ccidente, la Medusa di Leonardo, Hellas, il Prometeo). Alle opere poetiche si dedica il primo volume del dittico Meridiano, affidato all’esperto Rognoni, il quale in questo secondo volume, con il dramma Cenci, raccoglie prose più o meno ‘atipiche’. Nel 1819 Shelley usciva dalla sua fase più ideologica e platonica, la fase libertaria, per calarsi totalmente nello spiritus loci italiano. L’Italia respira nel volume: dalle Alpi, ai Colli Euganei, a Venezia, Napoli, Firenze, Roma, Lerici, dove per l’indomito trentenne sopraggiungerà la fine.
Ma prima di incarnarsi in quello spiritus, la sua storia intellettuale e creativa è leggermente diversa, a cominciare con l’«enciclopedico» La Regina Mab, un poema in nove canti, accompagnati da diciassette Note filosofiche, pubblicato nel 1813 e scritto sotto l’influsso dell’anarchico William Godwin. Si elabora sul concetto di «Necessità» fino a formulare una proposta teorica su una chimerica «perfettibilità» dell’uomo, ai fini della costituzione di una futura ‘società perfetta’, in cui si praticherebbero una nuova economia politica, vegetarianismo e libero amore. Naturalmente, l’impresa non fu gradita al milieu inglese e l’autore/sognatore subì dure censure e «guai» di altro genere. Shelley, confermava la sua cattiva fama di ribelle, di dissennato per di più ateo, blasfemo e così sovversivo da precorrere i radicali «Cartisti», Marx e Engels, che lo lessero.
Mab è la celtica «levatrice delle fate» sulla quale sproloquia spudoratamente il Mercutio di Romeo e Giulietta. Dopo un viaggio in Irlanda dove vede solo miseria e disuguaglianze, Shelley se ne appropria e ne fa la sua Regina Mab, una fata, aruspice dell’avvento di una profanante utopia futurista. Eccola, da lui descritta in un riquadro che non perde nulla in italiano: «Guarda il carro della Regina delle Fate! / destrieri celesti calpestano l’aria impalpabile; / le loro ali trasparenti al suo comando ripiegano, / e si fermano obbedienti alle redini della luce / tirate dalla Regina degli incanti». Sotto mascheratura favolistica, si consolida il coté anticonformista e ideologico di Shelley, che non abbandonerà in seguito in Italia perché deposto nei risvolti della scrittura.
È un superamento della vena «gotica» inglese (più adatta a Mary Shelley), espressa tre anni prima nel romance Zastrozzi, ruotante sul demonismo del personaggio eponimo, un villain di rara estrazione infernale, mosso da empi intenti. Il Meridiano contiene una seconda traduzione italiana di questo godibile romanzo per l’ottima mano di Lonati. Ne è prova l’incipit: «Strappato a coloro che più amava al mondo, vittima di nemici segreti ed esiliato dalla felicità, sventurato Verezzi! Tutto taceva: un’oscurità nera come la pece avvolgeva ogni cosa, quando, animato da feroce vendetta, Zastrozzi si appostò sull’uscio della locanda dove Verezzi dormiva tranquillo. Chiamò a gran voce l’albergatore. Questi, cui il solo nome di Zastrozzi incuteva terrore, arrivò tutto tremante». Non siamo al livello della raffinatezza di Poe, ma certo la suspense ci viene assicurata! Qualche barbaglio (bastino le allitterazioni ben ricalcate), in una fiction un po’ rimediata, il diciasettenne Shelley lo faceva già luccicare, magari sulla memoria della revenge tragedy elisabettiana. Fu una strada presto, accortamente, alienata.
La sua cattiva nomea in patria dopo l’espulsione da Oxford per il pamphlet La necessità dell’ateismo e la cattiva ricezione della Regina Mab, e dopo la fuga con Mary Wollstonecraft Godwin, unita al peso di debiti da saldare, nel 1818 Shelley si costringe a un volontario esilio. Si lascia incantare dall’Italia, dove Byron era di casa e dove, a Roma, nel 1820, si rifugerà Keats in cerca di buona salute: la triade s’era raccolta. Da questo esodo verranno le postume Lettere dall’Italia da leggere – suggerisce Rognoni – alla stregua dell’Italienische Reise di Goethe o del Rome, Naples et Florence di Stendhal, e tanto più come testimonianze di vita piena, non meramente turistica, e di elaborazioni intellettuali. Nell’accostarsi al centro della civiltà del passato sono il «sublime» della Natura e le rovine di Roma ad assorbire Shelley, lasciandogli coniugare per ossimoro due polarità (olivi, mirti, fichi sulle gradinate in rovina del Colosseo: natura à coté di cultura disastrata). Il suo primo giudizio su Roma è straziante: «Ecco le vestigia di ciò che un grande popolo un tempo dedicava alle astrazioni della mente. Roma è, per così dire, una città di morti, o meglio di coloro che non possono morire, e sopravvivono alle meschine generazioni che abitano e passano sul luogo che essi hanno consacrato per l’eternità».