Il Cinema Ritrovato di Bologna celebra il 60esimo anniversario di Fino all’ultimo respiro con una proiezione di una copia restaurata del film di Jean-Luc Godard in piazza Maggiore. Come spiegare a chi non lo conosce Fino all’ultimo respiro, il manifesto della Nouvelle Vague e uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi?
Alla base dell’intrigo c’è un fatto di cronaca. Siamo verso la prima metà degli anni Cinquanta, François Truffaut si trova in un cinema quando la proiezione viene interrotta dalla polizia, alla ricerca di un fuggitivo che il giorno prima ha ucciso un agente durante un banale controllo. Si scopre poi che la macchina su cui viaggia l’assassino, appena sbarcato dall’America, era stata rubata qualche ora prima a Le Havre. Subito nella mente di Truffaut scatta la scintilla di un romanzo. Un uomo vuole far colpo su un’americana, ruba un’automobile ma ad un fermo uccide un agente. Propone alla ragazza di fuggire con lui. Lei esita. Lui insiste. La polizia è sulle sue tracce. Il cerchio si chiude ma invece di arrendersi, il nostro va fino in fondo.

È UNA STORIA senza importanza, tipica dei gialli americani degli anni Trenta e Quaranta, nei quali il protagonista fugge in una strada senza uscita e non si può fidare di nessuno. Per gli americani, queste storie erano buone per i film di serie B, economici e senza alcuna ambizione, se non quella di vendere. Per alcuni critici europei, e in particolare francesi, la serie B è invece sinonimo di libertà e di inventività. Tra di loro ci sono Godard, Truffaut, Chabrol, Rivette… Tutta la équipe dei «Cahiers du cinéma».

Ma Fino all’ultimo respiro non è un remake manierista di un giallo americano. È un patchwork assai più complesso. La serie B è innestata con il cinema neorealista italiano, ed in particolare con Roberto Rossellini. Per il pubblico, in special modo italiano, Rossellini è soprattutto l’autore di Roma città aperta e di Germania anno zero. La Nouvelle Vague, e Jean-Luc Godard in particolare, guardano più ai film dell’incontro con Igrid Bergman : Viaggio in Italia, Europa 51, La Paura. Quando si hanno in mente questi titoli, il cinema di Godard (ma anche quello di Truffaut, di Eric Rohmer e più in là fino a Maurice Pialat) funziona come una sorta di camera di risonanza. Eppure, insistiamo, non si tratta di citare. Ancor meno di copiare. E nemmeno di ispirarsi.

Fino all’ultimo respiro, nonostante tutte le sue diverse influenze è un film totalmente libero. È un film mai visto.
Si tratta più radicalmente di capire dove va il cinema. Per Rossellini la modernità è la coppia. Tutto quello che Godard ha dovuto inventare, perché non esisteva, ruota in effetti intorno alla coppia. Cosa succede ad un uomo e ad una donna quando sono insieme in un appartamento? Questa domanda sembra banale. Ma diventa radicalissima se si mette tra parentesi l’intreccio del film. Vale a dire se non c’è una storia a dare senso alla scena. Ed è quello che fa Godard. Filma semplicemente Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Li fa esistere davanti alla macchina da presa in quanto tali. In un letto. In un’automobile. Per strada. Certo, c’è una storia (quella appunto scritta da Truffaut). Ma essa non precede i personaggi, determinandone il comportamento – come avviene generalmente. In Godard il rapporto tra sceneggiatura e personaggi è totalmente ribaltato. I personaggi sono gettati in un’esistenza. In questo senso, Fino all’ultimo respiro è il film dell’esistenzialismo francese. Questa libertà assoluta spaventa.

ALL’INIZIO delle riprese, nessuno sa bene come sarà il film che ha in mente Godard. Jean Seberg, per esempio, ha dei dubbi. Reduce da un’esperienza traumatica con Otto Preminger in un film totalmente strutturato secondo i rigidi canoni dell’industria hollywoodiana, non capisce cosa sia questo strano set in cui l’equipe è ridottissima. Dove non c’è il trucco, non c’è il suono, non ci sono luci, e la macchina da presa sembra un giocattolo. E Godard non la rassicura. Durante i primi giorni, interrompe spesso le riprese e manda tutti a casa senza spiegazioni. Belmondo si ricorda così del primo giorno: «Sono entrato in una cabina telefonica, mi ha detto: ‘vai e di quello che ti pare ‘. E poi: ’non ho più idee, andiamocene’». Si tratta in realtà di una sorta di metodo. Continuerà a fare così anche nei film successivi. Ma nessuno è al corrente, e il «metodo» mette tutta l’equipe in uno stato di tensione e di dubbio.

DOPO alcuni giorni, il produttore perde le staffe e invia una lettera a tutti i tecnici intimando al regista di non interrompere più le riprese senza motivo. In realtà, Godard ha solo bisogno di prendere il ritmo. Girerà tutto d’un fiato e nei tempi previsti: solo 21 giornate, tra il 17 agosto e il 19 settembre 1959. Anche il film, come la storia, è fino all’ultimo respiro.