Borse che festeggiano, valorizzando il titolo del 4% in una seduta per il resto negativa. Sindacati preoccupatissimi e pronti alla mobilitazione. Governo tentennante, di fatto incapace di una politica industriale degna di questo nome. Nel caso Finmeccanica e nelle sue previste dismissioni c’è la fotografia di un paese che si riduce perfino a smantellare uno dei suoi ultimi grandi presidi industriali e tecnologici. Salvaguardando il solo comparto militare, a scapito di due eccellenze del settore civile come Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, e dell’unico polo ferroviario nazionale rappresentato da Ansaldo Breda.

A Fiom, Fim e Uilm che erano stati convocati proprio per parlare delle tre Ansaldo, l’ad di Finmeccanica, il «finanziario» Alessandro Pansa, ha ribadito che la sua politica non cambia: «Pansa ha confermato la strategia per il gruppo decisa nello scorso giugno 2011 – riepilogano i sindacati – tesa a concentrare le opportune risorse allo sviluppo dei settori considerati core business: aeronautica, elicotteristica, elettronica della difesa e spazio». Finché c’è guerra c’è speranza. Tanto che dell’ipotesi di vendere la controllata americana Drs, per fare un po’ di cassa, proprio non si è parlato.

Al contrario Finmeccanica, che pure conta 40 mila addetti e in un paese tecnologicamente desertificato ha investito in ricerca e sviluppo 10 miliardi di euro negli ultimi cinque anni, sostiene che «anche a fronte dell’eccessivo indebitamento e della scarsa generazione di cassa, non ha le risorse necessarie per sviluppare le attività di tutte le società». Quindi si (s)vende: «Le trattative per la cessione di Ansaldo Energia ai coreani (di Doosan, ndr) sono a uno stadio molto avanzato – riassumono Fiom & c. – Inoltre l’ad Pansa ci ha informato dell’esistenza di un’altra trattativa aperta per il settore del trasporto ferroviario con importanti gruppi manifatturieri esteri». Che sono General Electric per l’altro gioiello di famiglia, Ansaldo Sts, e i giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda.

Allo shopping delle multinazionali potrebbe opporsi, almeno in teoria, il governo. Solo due giorni fa Stefano Fassina aveva fatto accarezzare una ipotesi «riformista»: nonostante che il ministero dell’Economia sia il primo azionista di Finmeccanica (con circa il 33%), il suo numero due spiegava: «Noi vogliamo una soluzione che, attraverso la Cassa depositi e prestiti, consenta alle tre Ansaldo unite di poter rimanere in modo molto trasparente e fermo sotto il controllo italiano, con la ricerca di partner industriali disponibili». Posizione analoga a quella del ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Ma a giudicare dalle parole dell’ad Pansa ai sindacati, anche la (s)vendita soft incontra resistenze.

Di più: chiamata in causa («Tocca ora a Cassa depositi e prestiti farsi avanti con una proposta»), ieri la Cdp per bocca del suo presidente Franco Bassanini ha detto papale papale: «Non siamo la vecchia Iri, dobbiamo porre un’attenzione rigorosa alla sostenibilità economico-finanziaria degli investimenti e dei finanziamenti che facciamo. Anche i vincoli della Ue ci impongono di comportarci secondo i criteri degli investitori di mercato». Come se Ansaldo Sts e Ansaldo Energia fossero aziende decotte, e non dei gioielli del made in Italy.

Il sindaco genovese Marco Doria, che ha Ansaldo Energia in casa, la vede così: «Il governo Letta è stato troppo silenzioso su Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, una vicenda che ha un’importanza assoluta per l’industria nazionale. Lasciare la decisione sul futuro delle nostre aziende soltanto a un gruppo che legittimamente guarda ai suoi equilibri di bilancio mi è sembrato molto riduttivo». Del resto, quando Letta ha parlato in difesa di Ansaldo Breda – e dall’agenzia di consulenza tecnica indipendente Mott MacDonald emerge che non c’è nulla che non vada nel treno ad alta velocità Fyra contestato da belgi e olandesi – poi non è successo niente.