È ufficiale. Radio Città del Capo non esiste più. A deciderlo la cooperativa bolognese Open Group, che ha venduto l’ultima frequenza rimasta a Radio Subasio, gruppo Mediaset. Facile l’ironia: una delle ultime radio libere finisce nelle mani dell’azienda fondata da Silvio Berlusconi. Cosa è successo? «Non reputiamo più strategica la radiofonia tradizionale in analogico», aveva spiegato l’editore già nel novembre 2020 annunciando di volere investire altrove. Finisce così l’epopea lunga 34 anni di una radio libera e indipendente entrata nell’orbita di quella che poi è diventata una maxi cooperativa con più di 600 dipendenti e fatturato da decine di milioni di euro.

«È paradossale che per un quarto di secolo con pochissimo denaro e facendo i soldi mortali Radio Città del Capo sia rimasta viva e vegeta, e quando poi è passata ad una grande cooperativa in pochi anni invece tutto sia stato distrutto», commenta Paolo Soglia, direttore di Radio Città fino a quando, era il 2011, la coop editrice della radio bolognese confluì in una coop più grande, la Voli Group poi diventata Open Group.

TANTA LA RABBIA IN CITTÀ. Chi dalla radio c’è passato, e sono tanti, si chiede come sia potuto succedere. C’è chi riposta online un articolo del 2020, apparso sul blog dei Wu-Ming Giap, in cui si parlava di «continui e sistematici tagli e riduzioni dell’organico» ad una radio «risorsa fondamentale (e unica), da valorizzare e rilanciare». C’è chi usa parole forti. «Dio vi stramaledica per la storia e le storie di tutti quelli che hanno creduto in questo progetto. Per chi gli ha dato sangue e passione. Per il danno anche civile, politico, che fate alla città», tuona Luca Bottura.

«Chi voleva distruggere Radio Città del Capo ce l’ha fatta. Stupido chi (come il sottoscritto) non capì per tempo che l’obiettivo della coop proprietaria della radio era questo. Grande tristezza», scrive Bruno Simili, vicedirettore della rivista il Mulino che in radio fino all’ultimo ha fatto ogni settimana la rassegna stampa del mattino. «Sono stato un socio fin dalla nascita di questa radio ed esserlo mi costò uno stipendio, ma ero contento: era un investimento sulla libertà di informazione. Sapere che ora muore nelle mani più nemiche, è più di un insulto: è un furto con scasso della libertà di voci libere. Mi vengono lacrime di rabbia», ha scritto Fra Benito Fusco, una vita nella sinistra bolognese prima di entrare nell’ordine dei Servi di Maria.

LA STORIA DI RADIO CITTÀ del Capo, Rcdc come la chiamavano in tanti, inizia nel 1987 nel più classico dei modi per la sinistra: con una scissione. Dei redattori lasciano quella che si chiamava Radio Città per non vedersi dettare la linea da Democrazia Proletaria. Nasce così una storia di libertà e impegno, di racconto scanzonato di quel che si muoveva a Bologna, ma anche di giornalismo rigoroso che ha fatto sempre le pulci al potere. Il nome richiama alle lotte di Nelson Mandela. Negli anni ’90 la radio fonda assieme ad altre emittenti Popolare Network e inizia a sostenersi con gli abbonamenti, quello che ora si chiama crowdfunding. C’è chi in radio viene pagato (poco, a volte pochissimo), chi ci passa anni se non decenni da volontario. La comunità di ascoltatori cresce e ogni anno fa in modo di tenere in piedi l’emittente. Che ad un certo punto, è il 2011, sceglie la sicurezza economica. Arriva, ma in poco tempo è seguita dalla nuova parola d’ordine: sostenibilità. Tagli al budget, stretta sulle collaborazioni, abbandono della campagna abbonamenti.

DALL’INTERNO DELLA RADIO c’è chi si ribella all’andazzo, nel 2017 nasce RcdcViva e scoppia una guerra intestina. In tanti, soprattutto collaboratori ma non solo, se ne vanno e fondando una nuova emittete in streaming, Neu Radio. Quelli che restano Open Group decide di esternalizzarli creando Netlit, srl partecipata a metà dalla stessa Open Group e dalla romana Mandragola. La promessa è quella del rilancio. La realtà è un disastro. I soci iniziano a litigare, la cronaca locale viene messa a tacere dalla dirigenza, i pochi giornalisti rimasti lanciano una petizione per salvare la radio. Firmano quasi in 5 mila. Il covid congela tutto, finché si arriva all’epilogo: i due soci trovano un accordo, Open Group si ricompra la radio che aveva ceduto poco più di due anni prima. L’operazione la finanzia, è il novembre 2020, vendendo anche la prima delle due frequenze legate a Città del Capo. Il resto è cronaca di questi giorni, con l’ultima frequenza venduta al miglior offerente, il gruppo Mediaset. Un fallimento editoriale e imprenditoriale, non certamente economico. Perché, spiega in un comunicato Giovanni Dognini, presidente di Open Group: «Radio Subasio fa parte di una realtà economicamente solida che ha accettato pienamente le nostre condizioni».

APPENA SEPPELLITA LA RADIO, ora si parla di creare una sorta di museo, ma potrebbe trattarsi di un’idea morta prima ancora di nascere. La sequenza è questa: il 2 novembre 2020 Open Group annuncia di avere riacquistato Città del Capo, e di volere dedicarsi al mercato dei podcast ritenendo non più strategiche le trasmissioni in FM. Lo stesso giorno l’assessore alla cultura del Comune di Bologna Matteo Lepore scrive un comunicato di approvazione dell’operazione chiedendo però alla cooperativa di donare al Comune marchio e archivio storico. Open Group risponde subito ‘sì’. «Prima la distruggono e poi si vantano di celebrarne le spoglie», attacca l’ex direttore Soglia.

C’È ANCHE CHI FA NOTARE (Beppe Ramina, uno dei fondatori della radio) che il marchio di Rcdc non è mai stato registrato, quindi non si può cedere perché non è di nessuno. Così il 23 dicembre 2020, la data la indica il sito dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, chi ha deciso di chiudere la radio deposita anche una richiesta di registrazione del marchio, che ora per la prima volta sarà potenzialmente sfruttabile economicamente.
Dell’archivio che il comune avrebbe dovuto valorizzare non se ne è più saputo nulla. Tutti i contenuti del sito web di Radio Città del Capo, anni di articoli e audio che raccontano la storia di Bologna e non solo, sono stati nel frattempo oscurati.