Dopo avere preparato attentamente per mesi i mercati, ieri il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha deciso: dal prossimo gennaio l’acquisto dei titoli pubblici e privati sarà dimezzato dagli attuali sessanta a trenta miliardi di euro al mese per i prossimi nove mesi per un totale di 270 miliardi. Il «Quantitative easing», cuore della crescita europea attuale, non finirà di colpo. Anzi, Draghi e il consiglio della Bce hanno deciso a maggioranza di estenderlo almeno fino a settembre 2018, ma all’occorrenza anche oltre. Tedeschi e olandesi avrebbero voluto una data certa di scadenza, ma nulla hanno potuto contro gli altri partner che, in nome del mandato della banca centrale, pensano che l’attuale inflazione media all’1,5 sia ancora troppo bassa perché deve arrivare poco sotto il 2%.

QUESTO è uno dei punti deboli dell’ingegnosa architettura del «Qe» di Draghi. I salari sono ancora troppo bassi, la creazione di 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni sono in maggioranza precari, i consumi non ripartono e l’inflazione stenta a salire, malgrado una crescita che prosegue ininterrotta in Europa da 17 trimestri. È una storia ormai nota, al punto che più di una volta Draghi si è soffermato sul problema. Lo ha fatto anche ieri nel corso della conferenza stampa a Francoforte, quando ha detto che «le pressioni sui prezzi interni sono ancora attenuate e le prospettive economiche e il percorso di inflazioni restano condizionati dal continuo sostegno della politica monetaria». Per questo «un livello di stimolo monetario ampio è ancora necessario». È possibile che questa politica monetaria «accomodante» possa durare molto più a lungo del previsto. Nel suo inglese tagliente Draghi ne ha dato una definizione precisa: «open-ended». Che significa: «senza limiti precisi». Oppure, ed è un paradosso nell’epoca in cui tutto il lavoro è precarizzato: «a tempo indeterminato». È un’espressione che evidenzia la diversità del «ridimensionamento» del «Qe» rispetto al «tapering» della Fed americana. La polisemia del concetto è rivelatrice: la «crescita» dipende strutturalmente dall’alluvione monetaria emessa. Draghi non ha mostrato esitazioni davanti a chi, in sala, dubitava sull’esistenza dei titoli disponibili sul mercato a partire dal 2018: «Siamo ben forniti» ha risposto il banchiere italiano.

NELL’INDETERMINATEZZA di base dello strumento più possente che esista oggi in Europa a disposizione degli Stati e dei capitali emerge un altro problema: quello delle «riforme strutturali» che la Bce ha chiesto imperativamente a tutti i governi di eseguire senza fiatare. Tra queste, oltre alla scuola (in particolare l’alternanza scuola-lavoro), ci sono le riforme del mercato del lavoro. In Italia, il Jobs Act. Il 18 ottobre scorso, l’irrituale investitura data alla riforma per eccellenza di Renzi mentre partiva sul suo treno elettorale – prima che emergesse il fatto che a causa delle contestazioni le tappe del tour saltano e sono comunicate all’ultimo minuto – rivela una debolezza. Immaginiamo che Draghi sappia bene che la «riforma» del famigerato «contratto a tutele crescenti» è praticamente ininfluente sull’«aumento» dell’occupazione in corso anche in Italia. Il motore è la «riforma» Poletti che ha eliminato la causale ai contratti a termine. Oggi l’85% delle assunzioni in Italia è precarissima. Di conseguenza, anche i salari e i redditi sono bassi, o inesistenti.

LE «RIFORME STRUTTURALI» volute dalla Bce producono questi «McJobs» e nemmeno lo spirito santo riuscirà ad aumentare i salari che, a loro volta, dovrebbero rianimare e sorreggere l’inflazione che Francoforte cerca di portare al livello prestabilito. Un corto-circuito che, probabilmente, renderà infinita la dipendenza dell’economia reale stagnante, e precaria, dagli «stimoli» monetari della Bce. Senza questa respirazione bocca a bocca, la «crescita» può nuovamente crollare e la danza della pioggia che vede protagonisti i governi di tutta Europa sarà stata solo un inutile agitarsi: la prospettiva è la siccità.