La Bce ha deciso di avviare il cosiddetto tapering, cioè la riduzione graduale dello stimolo monetario a opera di una banca centrale, passando da un acquisto mensile di 60 miliardi di euro a uno di 30.

Nel dicembre del 2013 la Fed statunitense iniziò a ridurre il proprio quantitative easing, fatto di acquisto mensile di titoli pari a 85 miliardi di dollari, per passare a 75 e poi azzerarsi definitivamente nell’ottobre 2014. L’anno seguente negli Usa ebbe inizio un incerto percorso di aumento dei tassi d’interesse a causa di una claudicante ripresa. Oggi inizia un possibile percorso di riallineamento dell’eurozona con le scelte dell’altra sponda dell’Atlantico. Anche in questo caso la prudenza è grande, in quanto contemporaneamente all’annuncio della riduzione del qe Mario Draghi ha confermato che i tassi resteranno a lungo intorno allo zero.

Inoltre la Bce si riserva di riattivare acquisti di titoli a fronte di un peggioramento del quadro economico. Il problema apparentemente resta la bassa inflazione, anche se in molti si domandano quanto un target vicino al 2% sia un obiettivo credibile ai tempi dell’economia digitale.

Tempi in cui la pressione sui prezzi è frutto anche della disarticolazione del lavoro, recentemente ben documentata da Emilio Reyneri su lavoce.info. Il sociologo spiega come con la ripresa il lavoro indipendente stia crollando mentre quello dipendente stia aumentando in maniera insolita sia nella variante a tempo

indeterminato sia in quella a tempo determinato. Indice della sua marginalizzazione e pauperizzazione. Le politiche monetarie accomodanti, però, hanno consentito di far ripartire un nuovo ciclo finanziario.

Secondo la Banca dei regolamenti internazionali dal 2008 all’inizio del 2017 nelle principali economie (Usa, Eurozona, Giappone) le attività detenute dalle rispettive Banche centrali sono passate da 4.600 miliardi di dollari a 12.900, con un incremento pari a 8.300 miliardi. Nel medesimo periodo nelle stesse economie il Pil nominale è cresciuto di soli 2.100 miliardi. Ciò significa che la differenza tra l’impegno delle Banche centrali e l’aumento della ricchezza prodotta è stato pari a 6.200 miliardi, una quantità di moneta riversatasi quasi esclusivamente nei mercati finanziari, con tutto quello che ne può conseguire in termini di distorsione dei prezzi e di aumento dei rischi.

Questi dati rilevano il carattere massicciamente artificiale delle politiche monetarie espansive e la loro prerogativa che consiste nel rinviare piuttosto che risolvere i dilemmi emersi.

C’è poi da considerare come la crescita sia ottenuta lungo l’arco di tempo della ripresa, un dato spesso sottovalutato dai sostenitori dell’opzione di rapido ritorno alle politiche monetarie tradizionali. Le economie del G7 sono cresciute complessivamente nel periodo 2010-2017 di appena l’1,8% annuo, mentre in uno stesso arco di tempo di 8 anni, durante le riprese degli anni Ottanta e Novanta, il rimbalzo medio era stato del 3,2%, quasi il doppio.

Appaiono chiare le difficoltà a perseguire una rapida stretta delle politiche monetarie. Difficoltà che si misurano con la necessità di attrezzarsi per la prossima crisi, che potrebbe persino essere il risultato delle attuali politiche accomodanti sul versante monetario. Un circolo vizioso che per ora allarma una ristretta cerchia di addetti ai lavori. La gran parte degli operatori invece resta inebriata dai continui record di Wall Street. Non c’è Trump che tenga, per ora, l’ascesa sembra infinita. Indubbiamente la nuova finanziarizzazione consente a un po’ di ricchezza di sgocciolare nell’economia, ma al prezzo di profonde sperequazioni sociali ed ecologiche. Tale processo favorisce una certa stabilità, almeno fino alla prossima bolla.

Che probabilmente non è dietro l’angolo, ma non cadiamo nell’affascinante adagio che suggerirebbe che non possa più esplodere.