Sono passati dieci anni dall’inizio della Grande recessione, ne parliamo con Marcello Minenna, economista specializzato in analisi quantitativa, docente non accademico all’Università Bocconi, e PhD Lecturer alla London Graduate School of Mathematical Finance. Dal 2007 è dirigente responsabile dell’ufficio Analisi Quantitative e Innovazione Finanziaria presso la Consob. Dopo l’elezione a sindaco di Roma di Virginia Raggi ha prima accettato il ruolo di assessore al Bilancio, dimettendosi dopo pochi mesi in dissidio con la sindaca. Negli anni precedenti era stato «l’insegnante di finanza» di Maurizio Landini. Qualcuno vocifera che potrebbe essere il ministro dell’Economia di un possibile governo M5s.

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Dieci anni fa negli Stati Uniti scoppiò la crisi di cui ancora paghiamo le conseguenze. Innanzitutto le chiedo: dal punto di vista globale finanziario ne siamo finalmente usciti come sostengono le organizzazioni internazionali e il nostro governo?

No, non ne siamo fuori. Le conseguenze di lungo termine non sono state ancora riassorbite dall’economia globale. La prova sta nello straordinario intervento delle banche centrali, i cui bilanci sono cresciuti enormemente con la crisi, ma non sono mai tornati alla normalità. La ripresa economica c’è ma è sostenuta da una politica monetaria espansiva senza precedenti: 23mila miliardi di dollari di liquidità sono stati iniettati nell’economia globale dalle banche centrali. Nel corso del 2018 Fed e Bce dovrebbero iniziare una controversa riduzione; lì forse scopriremo se la ripresa economica mondiale è in grado di viaggiare con le sue gambe.

La bolla speculativa edilizia e i mutui sub-prime furono la causa scatenante. Ma la propagazione all’economia reale poteva essere evitata?

La finanza è un volano incredibile per la crescita facile. La crisi fu l’esito di un’escalation del credito all’economia per finanziare la speculazione immobiliare. Derivati e prodotti strutturati hanno magnificato i rischi mentre la leva finanziaria (cioè la dimensione degli attivi rispetto al capitale) saliva a dismisura. Banche e hedge fund sono stati spiazzati e sono passati da un eccesso all’altro, chiudendo i rubinetti del credito. L’effetto ricchezza su imprese e famiglie ha fatto il resto demolendo consumi e investimenti. A quel punto è stato difficile evitare il contagio all’economia reale: bisognava intervenire prima con strumenti adeguati di misurazione e gestione dei rischi. Solo valutare ex ante la probabilità di perdita si poteva evitare quel che è successo.

La reazione dell’allora presidente George W. Bush fu sufficiente?

Evidentemente no. A inizio 2008 Bush lanciò un pacchetto di stimoli all’economia da 170 miliardi di dollari (l’1 per cento del Pil) basato su tagli fiscali a imprese e famiglie in modo da rilanciare i consumi e spese per nuove attrezzature. Ma queste misure erano insufficienti a contrastare il venir meno del credito bancario a un’economia che fino a quel momento era stata “drogata” dai prestiti a largo spettro.

In Europa invece Trichet continuò ad alzare i tassi di interesse. Il suo mea culpa di qualche anno fa è credibile o ci fu del dolo in quelle decisioni?

Nel 2010-2011 la Bce commise l’errore di provare a «normalizzare» la politica monetaria in un momento dove l’economia europea aveva bisogno di continuo sostegno. I focolai della crisi del debito erano già scoppiati in Grecia e Portogallo, mentre la ripresa economica dalla crisi del 2008-2009 era più che mai fragile. Il tentativo di stretta monetaria avvenne poi in coordinamento con altri provvedimenti nefasti, come le manovre fiscali che i governi decisero maldestramente di imporre per rientrare prematuramente dal deficit e l’irrigidimento della normativa bancaria, volta a scaricare i rischi dai governi ai risparmiatori. Dietro c’era chiaramente la regia dell’asse Sarkozy-Merkel, appoggiati dall’ala ortodossa della Bundesbank. Purtroppo non funzionò.

In Italia invece Tremonti e Berlusconi prima continuarono a negare la crisi («I ristoranti sono pieni») poi in qualche modo cambiarono improvvisamente strategia. Paghiamo ancora oggi quel ritardo?

Nel 2010 ci fu un «cambio di marcia» nella politica economica del governo Berlusconi. L’Italia era stato il Paese che era intervenuto meno a sostegno dell’economia dopo il crack Lehman Brothers (Tremonti se ne vantava); i costi della crisi, evitati all’inizio, rientrarono raddoppiati dalla finestra quando il Pil crollò di quasi il 6 per cento nel 2009 ed il deficit esplose al -5,3%. Questo indebolì molto la posizione del governo nell’equilibrio di potere dell’Eurozona. Berlusconi già nel 2010 dovette concedere agli euro-burocrati sostenitori dell’austerity la riforma pensionistica Sacconi ed una manovra 2011 durissima; entrambe le misure contribuirono ad indebolire l’economia ed innescare la crisi del debito dell’estate 2011.

Gli Stati Uniti furono i primi ad uscire dalla crisi grazie alle politiche espansive della Fed e agli aiuti di Obama all’industria, in primis l’auto. Fu una strategia lungimirante?

Sì, i fatti parlano chiaro. Gli aiuti al sistema bancario ed industriale possono essere definiti eticamente controversi, ma furono efficaci nell’impedire che l’economia implodesse. La ripresa della produzione e dell’occupazione furono veloci ed il governo recuperò in fretta i prestiti. La Fed utilizzò strumenti innovativi espandendo il proprio bilancio a 4mila miliardi, acquistando oltre 2mila miliardi di titoli tossici e trasformandosi de facto in una enorme bad bank. Obama sostenne il consumatore con coraggiosi sgravi fiscali. L’Eurozona invece fu molto più riluttante, l’Italia si lasciò cadere in un immobilismo governativo che fu letale.

Oggi alcuni dati economici americani e inglesi (debito privato sulle carte di credito) portano varie cassandre a sostenere che siamo alla vigilia di una nuova crisi ancora più devastante. È un rischio reale?

Eccome se lo è! E dietro c’è anche una forte componente culturale data dalla bassa propensione al risparmio, motivo per cui il loro debito è rispettivamente l’80% e il 90% del Pil. Peraltro lo zoccolo duro continuano ad essere proprio i mutui che negli Stati Uniti oggi superano i 10mila miliardi. Anche altre voci sono in forte crescita come i prestiti studenteschi e quelli sulle auto: un business da oltre 2.500 miliardi con tassi di insolvenza sempre maggiori. E poi c’è la Cina che ha un livello di livello di indebitamento spaventoso: l’esposizione complessiva delle banche è il 650 per cento del Pil. Non v’è dubbio che potrebbe essere il prossimo cigno nero.

In Europa invece il Qe di Draghi sta per concludersi. L’impalcatura europea e l’economia sono in grado di affrontare una nuova fase? Arriverà la tanto invocata inflazione?

L’Eurozona è un animale complicato e questo non aiuta. La forza degli Stati Uniti per superare la crisi è stata la coesione. Dall’altra parte dell’Atlantico noi dobbiamo mettere d’accordo troppe teste, ognuna con un’idea diversa e poco usa a pensare al bene comune. Oggi l’area euro si sta riprendendo ma rimangono gravi squilibri nella crescita e nel livello dei prezzi che vanno sanati nello spirito dei Trattati che non a caso parlano di crescita equilibrata. Altrimenti restiamo vulnerabili e la fine del Qe può essere il nuovo tsunami. Sull’inflazione sono scettico: in oltre 2 anni di stimolo monetario la risalita dei prezzi è stata moderata perché i canali di trasmissione della politica monetaria non funzionano. Figuriamoci senza.