La Repubblica democratica del Congo dal 2016 vive una situazione di grande instabilità politica, da quando al termine dell’ultimo mandato del presidente Joseph Kabila si è entrati in una situazione di impasse. Stando agli accordi di san Silvestro del 31 dicembre 2016, siglati tra società civile e governo, grazie alla mediazione della Chiesa, il presidente uscente, entro un anno, avrebbe dovuto organizzare le nuove elezioni. Ma gli accordi non sono stati rispettati e dopo due anni di rinvii, oggi la Rdc è chiamata alle urne: l’ultimo slittamento dal 23 al 30 dicembre era stato deciso dalla Commissione elettorale preoccupata per le crescenti violenze e insicurezze registrate durante la campagna elettorale.

UN INCENDIO HA DISTRUTTO inoltre uno stock di materiale destinato alle elezioni nel paese: il sistema Tvs (Touchscreen Voting System), al 13 dicembre era stato consegnato solo al 3% degli oltre 8000 seggi. Ancora oggi, stando alle parole di Martin Fayulu, leader dell’opposizione, sarebbero 5 milioni gli elettori non in grado di esprimere voti: «Le macchine devono ancora essere consegnate in alcune aree». Nelle zone rurali dove vive la maggior parte dei congolesi l’elezione è vista come un opportunità per realizzare quei progressi che i 18 anni di potere di Kabila hanno impedito.

LE PROTESTE SONO ESPLOSE di nuovo venerdì, nella città di Beni, in risposta alla decisione dell’ultimo minuto di rinviare, per circa 1 milione di elettori, il voto a causa di una possibile propagazione dell’epidemia di ebola, in aree particolarmente favorevoli all’opposizione. L’ex ministro dell’interno, candidato del presidente uscente, Emmanuel Ramazani Shadary, garantirebbe una continuità decisionale a Kabila, che ha già dichiarato la sua intenzione di ripresentarsi tra 6 anni. Il frammentato fronte di opposizione, invece, poggia le sue speranze di cambiamento su Felix Tshisekedi, Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps), e Martin Fayulu designato da sette leader dell’opposizione come «candidato unico».

 

Majengo, Nord Kivu, 28 dicembre 2018. Ragazze in fuga dagli scontri esplosi dopo lo spostamento del voto a marzo nella provincia (foto Afp)

 

AL POTERE DAL 2001, il presidente uscente Kabila ha innescato un braccio di ferro tra governo, società civile e il mondo ecclesiastico. La mancanza di un reale confronto politico e le escalation di violenza, in risposta alle manifestazioni nel territorio africano, sembrano essere i mezzi tramite i quali Kabila ha voluto legittimare la propria leadership: «vari osservatori pensano che le elezioni non saranno libere e trasparenti. Si sbagliano di grosso» ha dichiarato il presidente alla Reuters. Ma intanto agli osservatori internazionali è stato vietato di monitorare le elezioni.

IL CONGO È UNA TERRA ricchissima di materie prime, motivo per cui l’instabilità è legata storicamente agli interessi commerciali delle potenze occidentali: basti pensare al coltan (columbo-tantalite), elemento essenziale nella fabbricazione dei componenti elettronici di tv, pc, smartphone.

La reazione violenta di Kabila ha gettato anche la chiesa, unico oppositore credibile, in uno stato di incredulità e di necessaria secondarietà all’interno di questo confronto politico.

IN CONGO È IN ATTO un genocidio che va avanti da oltre 20 anni: la guerra nella Rdc è ufficialmente terminata nel 2003, ma in realtà scontri e violenze non sono mai cessati. Governi e milizie irregolari si sono contese, dal 1996, il controllo del territorio causando milioni di morti. Tra maggio e giugno del 2017 sono state scoperte 42 fosse comuni per oltre 400 morti. Tra di essi anche due funzionari delle Nazioni unite, Zaida Catalan e Michael Sharp, inviati in Congo e scomparsi il 12 marzo 2017: per la loro morte è stato arrestato il 6 dicembre scorso, grazie alle rivelazioni contenute nei Congo Files, il colonnello Jean De Dieu Mambweni.

LE SOLUZIONI ESTERNE stentano ad arrivare, mentre le risorse naturali e minerarie vengono esportate senza problemi, per un giro di affari ormai calcolato in 42 milioni di dollari mensili, sufficienti a garantire a Kabila una certa stabilità e la speranza di essere un decisore attivo anche senza la carica di presidente.