Per troppo tempo l’equazione che ha legato in maniera esclusiva l’operato di Ambrogio Lorenzetti ai clamorosi affreschi del Buon Governo in Palazzo Pubblico a Siena è parsa esaurire la soddisfazione degli studiosi, finendo col comprimere l’eco degli altri suoi lavori. Quei dipinti non solo reggono il confronto, ma ampliano enormemente lo spettro della sua caratura artistica. È per questo che riveste una grande importanza l’idea di un’esposizione che, secondo una traiettoria ordinata in senso cronologico, presenti una carrellata completa della sua produzione.

È la prima volta che le pitture di Ambrogio Lorenzetti sono protagoniste di una mostra. In realtà, quella in scena tra le sale del Santa Maria della Scala a Siena (a cura di Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel) è solo la tappa finale di un percorso di preparazione lungo anni, fatto di indagini articolate ad ampio raggio. Il catalogo (Silvana Editoriale) ne dà conto in modo complementare, coagulando una serie di contributi di grande interesse e colmando la lacuna di uno studio moderno sul più giovane dei Lorenzetti.

Ne è scaturito il profilo di un artista capace di unire il genio delle immagini a quello delle idee; di un pittore che studiò intensamente la realtà, che si pose il problema dello spazio e della luce, che si appropriò degli aspetti più vari della natura e arrivò finanche a dare risalto per la prima volta ai fenomeni atmosferici; di un magnifico interprete di quella curiosità tutta senese per la narrazione minuta del quotidiano, nelle cui opere convivono, senza attrito, elevate metafore teologiche e brani di semplice umanità. Di queste unicità la mostra di Siena, una delle più stimolanti degli ultimi anni, offre prove di rilevante efficacia.

Pur muovendosi sullo stesso terreno del fratello Pietro e di Simone Martini, la storia di Ambrogio Lorenzetti prende sin da subito una piega unica. Il Crocifisso della collezione Salini ne è l’apripista e documenta le tangenze più dirette col magistero duccesco. È il Duccio tardo a stimolare la sua fantasia, l’artista maturo che cerca un confronto con i pittori senesi giovani e dipinge nella Maestà di Massa Marittima – uno degli antefatti che introduce la mostra – dettagli di tale immedesimazione da aver incentivato affascinanti ipotesi di collaborazione intergenerazionale. Ambrogio agisce nel medesimo solco ma si affretta a distinguersi, ponendo al fianco di Gesù un san Giovanni contrito che avvolge nervosamente le mani nella veste e l’Addolorata, con gli occhi feriti dal pianto e avvolta di un nero vellutato. La contemporanea Madonna di Vico L’Abate va nella stessa direzione di compromesso: Maria, figura di inalterabile solidità fisica, è seduta su un trono poderoso e offre al fedele un bambino che a fatica si lascia costringere nel suo contegno sforzato.

All’altezza degli anni venti del Trecento lo spirito creativo di Ambrogio è già al massimo. Gli affreschi della Sala Capitolare nel convento di San Francesco a Siena (rappresentati da alcuni frammenti, come il Gruppo di Clarisse della National Gallery di Londra) ne forniscono un concreto riscontro. Le figurazioni superstiti (oggi nella Basilica francescana) sono ridotte a due scene di corte, una con dignitari e cardinali al cospetto della pubblica abdicazione di san Ludovico di Tolosa (racconto impreziosito da una strabiliante teoria di fogge cortesi) e l’altra con funzionari orientali che vigilano sul martirio di alcuni frati. I restauri condotti in vista della mostra hanno valorizzato l’eccezionale polimaterismo dei dipinti, fatto di intonaci modellati col pennello e foglie metalliche variamente trafitte dai punzoni. L’espediente di far germogliare raggi dorati intorno ai capi recisi dei martiri per dare forma visibile al farsi della loro santità, in particolare, cattura l’attenzione e stupisce.

Non è un caso che ogni dipinto di Ambrogio Lorenzetti si sia meritato nel tempo il riconoscimento di capolavoro singolare. Ciascuno di essi è uno straordinario documento della sua acutezza ed è forte lo stimolo di cercare ogni volta in che modo risolva problemi sempre nuovi. Nelle Storie di san Nicola degli Uffizi, il suo punto più alto per intelligenza descrittiva, il pittore associa una consistenza scenografica quasi rinascimentale alla cura superelegante degli ori, alternativamente mera astrazione oppure essenza cromatica. Nella tavoletta dello Städel di Francoforte dall’oceano di tenebre notturne affiorano e si compongono come fiammelle gli angeli dell’Annuncio ai pastori, preceduti da accenti di pura luce.

Nel bel mezzo del percorso si incastona la cappella di San Galgano a Montesiepi. Al visitatore è concessa un’esperienza di evocazione ambientale di sicuro impatto, quella di ammirare a breve distanza il ciclo di affreschi che decorava la cappella sorta sull’eremo del cavaliere Galgano, famoso per l’episodio della spada nella roccia. Le storie del registro inferiore – l’Annunciazione e una Veduta di Roma – sono a confronto con le rispettive sinopie, gli studi compositivi recuperati dallo stacco dei dipinti. Al passaggio dalla preparazione alla versione definitiva si innescano significative varianti. La metamorfosi della Vergine aggrappata ad una colonna in una figura idealmente indifferente ha tutto il sapore di un addomesticamento dell’irruenza inventiva di Ambrogio. Gli interventi conservativi più recenti hanno recuperato la silhouette del possibile committente, immediatamente sostituita dallo stesso pittore da una figura intera in una zona di maggiore visibilità. Più avanti, nelle lunette assistiamo alla presentazione di san Galgano alla corte paradisiaca, accompagnato dall’Arcangelo Michele. Al centro c’è l’immagine insolita di una Madonna con tre braccia, palinsesto di due stesure diverse, contrapposte dal ruolo che Maria avrebbe assunto: Regina dei cieli per Ambrogio, Madre di Dio per il più docile Niccolò di Segna.

La partenza di Simone Martini alla volta di Avignone segna un punto di snodo nella carriera del Lorenzetti. Da allora l’artista avrebbe collezionato incarichi di prestigio, tradottisi in capolavori indiscussi – come il ciclo dell’Allegoria e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo nella Camera di Consiglio dei Nove, la Maestà di Massa Marittima e la Purificazione della Vergine per il Duomo di Siena – oppure in opere di minore fortuna – come la Madonna nella Loggia di Palazzo Pubblico, che rielabora il motivo bizantino delle striature dorate senza rimetterci troppo in verità – e ancora in creazioni disperse dal tempo, come il Mappamondo girevole, la cui sala omonima, insieme alle sgraffiture della parete, resta oggi a tenerne memoria.

Ambrogio è instancabile nella ricerca. E se l’esistenza umana si avvia a conclusione, la sua creatività respira ancora a pieni polmoni. Il carattere sperimentale del Polittico della Maddalena è messo in risalto dall’allestimento che ne evidenzia la funzione originaria, quando era adibito a superbo sipario della clausura di un convento femminile. La Piccola Maestà della Pinacoteca Nazionale di Siena, ricomposta nelle sue parti (in prestito dalla Yale University Art Gallery e dal Louvre), esprime invece una declinazione originale del formato a trittico. Spetta a questa e all’Annunciazione per l’Ufficio di Gabella il congedo del Lorenzetti. Opere, queste, condite di tante finezze che sembrano emanare luce propria e allo stesso tempo portatrici di una monumentalità nuova. Disponendosi a giro dietro Maria, a farle muraglia, gli angeli della prima esplorano lo spazio astratto di una foglia d’oro; nell’altra il pavimento a scacchiera richiama soluzioni di razionalità prospettica di là da venire.

La peste nera del 1348 avrebbe interrotto questa crescita vertiginosa. Oltre un secolo di pittura sarebbe rimasto aggrappato tenacemente a quelle intuizioni, mortificandole in scialbe ripetizioni. Finiva così un momento, il più alto, della civiltà figurativa senese.