Manca neppure una settimana all’Election Day 2016, ma già diversi milioni di americani hanno votato. Più o meno 18 milioni. Votano grazie all’early voting (o advance voting), il voto anticipato per posta o in appositi seggi, una possibilità che un tempo riguardava gli elettori lontani dalle loro residenze, come i militari all’estero, ma che sempre più, con gli anni, è diventata una pratica diffusa in molti stati. 37 stati che hanno allentato parecchio le condizioni per aver diritto al voto in anticipo, che è così diventato un esercizio diffuso, e ormai interessa una buona fetta del corpo elettorale statunitense. Quando si voterà, l’8 novembre, si calcola che saranno già una cinquantina di milioni gli early voter, 4 milioni in più del 2012 (furono il 31,6).

In Florida, anche questa volta uno degli stati chiave, forse il più importante, hanno già votato tre milioni di elettori.

I loro voti saranno conteggiati insieme a quelli degli elettori «regolari».

Ma, intanto, possono dare qualche indicazione su come sta andando la corsa?

In generale, l’early voting favorisce i democratici e, quindi, l’alta partecipazione di queste elezioni è considerata un buon segno per Clinton.
Inoltre molti di questi elettori «in anticipo» hanno votato prima che scoppiasse nuovamente lo scandalo delle email di Hillary Clinton, per iniziativa del direttore dell’Fbi James Comey.

Su di loro, quindi, non può avere influito. Può essere interessante, piuttosto, osservare che gli elettori registrati come repubblicani prevalgono in stati come l’Iowa e l’Ohio e gli elettori registrati come democratici sono più numerosi in Arizona e Colorado, mentre in Florida gli elettori repubblicani sono di più, ma il margine di vantaggio rispetto ai democratici si è assottigliato nell’ultima settimana, nonostante l’email-gate clintoniano.

Anche per via dell’early voting, i sondaggi diventano sempre più aleatori in questo tratto finale della corsa elettorale e a loro volta alimentano l’aleatorietà di un finale nel quale si ripetono clamorosi colpi di scena considerati game changer, in grado di cambiare il gioco.

Proprio questa incertezza è motivo di allarme in campo clintoniano, specie in presenza di un dato, discutibile finché si vuole ma che alimenta un clima già sfavorevole per Hillary, ed è il balzo registrato da Donald Trump, che adesso tallona da vicino l’ex segretario di stato Clinton.

Va detto che, secondo Nate Silver, il riverito re degli algoritmi, la candidata democratica rimane saldamente in testa in termini di voti di collegio elettorale, quelli espressi da ciascuno stato, che sono i voti che contano.

Per Silver, insomma, Donald Trump resta l’underdog, l’inseguitore, lo sfavorito dai pronostici.

In questi giorni di fine corsa, con una massa consistente di early voter, quasi un terzo degli elettori, è però davvero difficile dar retta ai sondaggi. Inoltre, l’esperienza insegna che nelle ultime settimane prima del voto, gran parte degli elettori ha già deciso da tempo: già, ma come?

E sempre più esile diventa la quota degli indecisi, elettori incerti, umorali, altalenanti, una porzione di voti sempre più difficile da rilevare con i sondaggi.
Ma che in competizioni combattute fino all’ultima scheda, sono i voti decisivi.

La preoccupazione, per gli strateghi di Hillary, è che, comunque, sembra evidente l’approssimarsi di un finale da thrilling, quando solo pochi giorni fa fervevano già i preparativi per mercoledì 9 novembre, nella certezza della vittoria acquisita.

Adesso il roseo giorno dopo l’8 novembre di un paio di settimane fa è temuto con una certa angoscia come un cupo day after.

Il segnale del pericolo incombente è dato anche dal ricompattarsi del fronte repubblicano, che nella rimonta di Trump e nei guai di Hillary sente profumo di vittoria.

La saga dell’email-gate ha addirittura riavvicinato Donald Trump e lo speaker della camera Paul Ryan, ai ferri corti dai tempi della convention repubblicana.

Adesso che è Hillary sotto schiaffo, i repubblicani, che nella condivisa avversione verso Clinton hanno sempre trovato un comune sentire, forse l’unico vero amalgama che li tenesse e tenga insieme, hanno come ritrovato un elisir che li galvanizza perché promette loro il mantenimento della maggioranza nelle due camere del Congresso.

Una maggioranza che le gesta del miliardario di Manhattan ha messo seriamente sotto ipoteca.

Ma il day after che paventano i democratici non è solo quello di una possibile anche se improbabile sconfitta, è anche il giorno dopo una vittoria – importante come tale – eppure fortemente segnata e condizionata da una campagna elettorale, specie nella fase finale, che ha assunto i toni di una guerra civile.

Non l’America spaccata di Obama, il presidente che avrebbe voluto riappacificarla.

Ma l’America del rancore violento che guarda in cagnesco l’altra America, un Paese nel quale una ragguardevole quota di elettori considererà illegittima l’elezione di una candidata dipinta per mesi come una delinquente che, secondo il suo avversario e secondo i suoi sostenitori, dovrebbe finire in galera, non alla Casa bianca, o per lo scandalo delle email, o per aver truccato le elezioni o per qualche altra nefandezza.

Una campagna elettorale avvelenata destinata a proseguire dopo l’8 novembre.