Dei molti che ascolteremo nel corso del film di Luke Holland soltanto uno dal passato ha preso una distanza «consapevole» e ai giovani neonazisti nella Germania di oggi dice di non cadere in quella propaganda. Lo dice severo, e si infuria in uno dei passaggi più vitali del film quando il ragazzetto a cui il regista copre il volto gli replica che invece si deve fare attenzione ai migranti che ti rubano il portafogli, quel «refrain» miserevole dei populismi e delle destre che non sanno cosa rispondere alle crisi sociali e economiche del nostro tempo limitandosi a acciuffarne la rabbia. Lui il nazismo lo ha conosciuto e praticato nel Terzo Reich, cresciuto nella gioventù hitleriana e poi «elite» nelle SS. Ma, appunto, è il solo che sembra avere lavorato sulla sua esperienza.

GLI ALTRI a cui il regista inglese pone le questioni sono ancora lì, qualcuno addirittura ben fermo nelle sue idee, nella convinzione della grandezza di Hitler, negazionista convinto che l’Olocausto è stata «una invenzione», fino a esibire con fierezza negli interni domestici di ninnoli e carte da parati e lusso ammuffito le vecchie carte, i documenti del nazismo, delle Ss, le glorie del potere. Di cui i figli si stupiscono – «Non sapevamo nulla» dicono. Che poi è la stessa frase ripetuta dalla maggioranza degli altri anziani, non sapevamo, eravamo contenti di quanto ci veniva offerto, eravamo giovani: padri e i figli accomunati nella rimozione.
Final Account, presentato fuori concorso, parte dalla memoria familiare del regista inglese i cui nonni materni morirono in campo di concentramento, e cerca le tracce di quella storia nel presente, attraverso i suoi protagonisti, coloro che hanno agito, che hanno aderito al Reich e al suo progetto cercando di capire motivazioni e contesto, cosa è accaduto e perché. C’è chi, come una donna, spiega che grazie alla gioventù hitleriana facevano cose che non avevano mai fatto, sport, vita comune, e infine tutti erano nazisti, e ci credevano, obbedivano a quanto veniva detto, non comprare nei negozi degli ebrei, tenerli lontani, eliminarli. E poi? Lei pensa che come tedesca deve provare vergogna ma a livello personale di cosa si deve pentire?

È QUESTO distacco, questa «normalità» l’aspetto più inquietante del film di Holland, una complementarietà alla «banalità del male» eichmanniana, qui non si tratta di «eseguivo gli ordini» ma di una certezza che da qualche parte – e in diversi casi con evidenza – è rimasta ben salda. O di un’indifferenza, specie tra i cittadini comuni, ma, come dice qualcuno «è difficile trovare degli eroi». Già e infatti la cosa più inquietante è che siano rimasti lì.

EPPURE è la Germania di Angela Merkel che ha sottolineato più volte la necessità di confronto e critica di quel passato – come si vede nel finale del film – ma che forse lo ha sepolto in fretta o non lo ha guardato in fondo. La Storia è una macchina complessa, ma non è questo o almeno così sembra, la questione al centro del lavoro di Holland. Le sue testimonianze lasciano aperte le domande più sul presente che sul passato, e qui sta il suo valore e la sua importanza.