Esiste una corrente sotterranea della filosofia critica che non si fa intimidire da chi brandisce l’arma del nichilismo passivo, del risentimento di massa o dei macro-soggetti salvifici come il «popolo». Ubaldo Fadini è uno dei suoi esponenti. Da tempo costruisce antidoti teorici alla paranoia del capitalismo neoliberista che capovolge la ricerca della libertà nell’opposto dell’auto-sfruttamento.

Nel suo ultimo libro (Il tempo delle istituzioni, Ombre Corte, pp.180, euro 16) Fadini intende «passare alla politica». L’approdo alla politica avviene quando si percepisce una differenza: tra la legge morale attraverso la quale il neoliberismo instilla nell’individuo il rispetto dell’imperativo alla performatività meccanica e luttuosa e l’etica che rende libera e forte la vita che si dà una regola di condotta, un’invenzione giuridica e una cooperazione sociale. Lo scontro tra la morale e l’etica è il cuore della filosofia del combattimento proposta in questo libro.

IL PASSAGGIO avviene con, e attraverso, una delle filosofie più maledette, strumentalizzate e incomprese, non studiate e politicamente invise: quella di Gilles Deleuze. Fadini si sofferma sul ritratto filosofico che il filosofo francese ha fatto dello scozzese David Hume.

La società non crea leggi, ma istituzioni. È una «tendenza» che Hume collega alla ricerca dell’utile. Così facendo si rischia tuttavia di ridurre l’istinto al mero interesse dell’individuo e di una finalità biologica primaria. Da questa antropologia il neoliberismo ha tratto una forma morale del legame umano combinato con una filosofia degli interessi collettivi identificati con il contratto e l’impresa. La sua politica evoca una libertà, ma subito la neutralizza, ripiegandola sull’interesse individuale. La libertà dell’Io atomico totale distrugge la libertà di sé e quella degli altri.

Fadini propone un’alternativa. Un’istituzione – lo stato, il mercato, il discorso o anche il Sé – non è irreversibile, ma è metamorfica. L’istinto che porta alla creazione di un’istituzione non è «naturale», né l’espressione di un’essenza. L’umano non è un essere «specializzato» in management di se stesso, bensì un soggetto plastico che concepisce la sua parzialità dentro una trasfigurazione incessante.

LA SUA «INCOMPLETEZZA» non lo limita alla sopravvivenza, ma lo spinge ad aprirsi nel mondo, un campo popolato da infinite sorprese dove il fine non è noto.

Il «passaggio alla politica» avviene quando il desiderio è liberato dall’identificazione con un interesse calcolato.

Questo è il vangelo del neoliberismo, il cuore di un costruttivismo radicale che ha l’obiettivo di creare una società economica di mercato. La sua politica è tanto più violenta oggi perché stagnano i tassi di crescita dell’economia, di impiego della popolazione o del benessere della popolazione.
Se la biopolitica non estrae più valore dagli individui, sono gli individui a dovere spremere la propria vita cercando di rendere produttiva l’unica cosa che hanno: se stessi.

Il passaggio di cui parla Fadini è realizzabile attraverso il superamento dei limiti dell’Io, una presa di distanza etico-politica dalla pulsione al godimento a vuoto di se stessi.

L’OPERAZIONE è meno complessa di quanto si possa immaginare. Va reinterpretato il concetto di «utile», pilastro dell’antropologia neoliberale. Al punto in cui siamo non esiste nulla di più utile per un essere umano che un suo simile, soprattutto quando si è privi di mezzi o proprietà; utile è quando usano se stessi come mezzi per gli altri, non come strumento per appropriarsi di una ricchezza che è negata ai più. Questa utilità reciproca non è un semplice riconoscimento, ma una connessione tra potenze eterogenee volta alla creazione di nuove istituzioni.

NE DERIVA UN’IDEA di libertà che non dipende da ciò che gli uomini hanno o producono, ma da ciò che possono diventare in base al loro essere attivi. L’attivismo non è funzionale a un processo di valutazione o classificazione, ma alla creazione di una politica del «Noi».

«Noi» non è una sostanza, né una comunità già costituita. Il soggetto che noi siamo è imprevisto e non è mai dato una volta per tutte. Passare alla politica significa oltrepassare la malinconia di una fine della storia per dare seguito a una liberazione che è già cominciata.