In una pagina del Novellino leggiamo di un filosofo che vede in sogno le dee della scienza. «Fue un filosofo, lo quale era molto cortese di volgarizzare la scienza per cortesia a signori e altri genti. Una notte li venne in visione che le dee della scienza, a guisa di belle donne, stavano al bordello. Ed elli vedendo questo, si maravigliò molto e disse: “Che è questo?”». Le interroga e capisce allora che «volgarizzare la scienza si era menomare la deitade». È la voce di un narratore brillante e di spiriti conservatori che condivide la posizione di chi pensa, con strenuo elitismo, che il sapere debba restare in mani sicure, che non debba essere divulgato. Perché il sapere è potere.
Ci sono però voci, intenzioni, opere che vanno nella direzione opposta. Il Medioevo conosce, accanto alla filosofia dei chierici, che studiano e scrivono in latino, cioè la lingua della Chiesa, delle scuole dei monasteri, delle scuole delle cattedrali, chiusi nella cittadella del loro sapere, anche le aspettative, le elaborazioni e le rivendicazioni di una filosofia dei «laici», cioè di chi non ha ricevuto una formazione superiore, di chi cerca una filosofia che parli a una cerchia più vasta. Una filosofia che può ispirarsi ad Aristotele, che scriveva, all’inizio della Metafisica: «Per natura tutti gli uomini desiderano conoscere». Si propone di riscoprire e di ripercorrere questa «storia altra» la raccolta di saggi di Ruedi Imbach e di Catherine König-Pralong, La sfida laica Per una nuova storia della filosofia medievale (Carocci editore, pp. 254, € 23,00). Un programma che è anche una sfida storiografica e metodologica, perché, come scrive Gianluca Briguglia nella Presentazione, «ricomprendere le imprese dei laici come autonome imprese filosofiche vuol dire infatti ampliare l’idea di filosofia, non solo medievale».
Gli Specchi dei principi
L’indagine è complessa, perché diverse sono le categorie di testi da interrogare e da esaminare. Abbiamo dei testi scritti da chierici, in latino, e destinati ai laici, come tutta la serie degli «specchi dei principi»: il De regno di Tommaso d’Aquino, il De regimine principum di Egidio Romano, lo Speculum regum di Alvaro Pelagio. Abbiamo le traduzioni in volgare di testi filosofici: la Consolazione di Boezio, le due Retoriche attribuite a Cicerone, il Secretum secretorum (di cui si contano nove traduzioni inglesi, dieci francesi e numerose traduzioni tedesche, per un insieme di più di seicento manoscritti). E ancora, le opere di Aristotele che Nicola Oresme, alla corte di Carlo V, traduce in francese: l’Etica, la Politica, il De caelo, la pseudo-aristotelica Economia, con l’acuta consapevolezza che tradurre non rappresenta solo una volgarizzazione e un abbassamento del sapere, ma significa anche promuovere il volgare quale lingua scientifica.
Abbiamo, soprattutto, dei testi filosofici scritti da laici. Come Li livre dou Tresor di Brunetto Latini, come il Mirouer des simples ames di Margherita Porete. È questa la vera sfida, e dopo due densi saggi tematici di Ruedi Imbach – Dei laici filosofi e La filosofia nelle corti (la corte di Federico II, dove si incontrano e lavorano letterati provenienti da diversi paesi, come Teodoro d’Antiochia, Leonardo da Pisa, Michele Scoto; la corte di Roberto d’Angiò, a Napoli) – il volume ci presenta, scendendo nel concreto, quattro «ritratti» di grandi filosofi laici: Raimondo Lullo, Dante, Petrarca, Christine de Pizan (scritti i primi tre da Imbach, l’ultimo da König-Pralong).
Nelle pagine su Lullo si analizza il ruolo che le «arti meccaniche» hanno nel suo sistema filosofico. Se il catalogo dell’antecedente più rilevante, il Didascalicon (1125) di Ugo di San Vittore è copioso, ma sempre astrattamente ricondotto a presupposti teologici – e sarà il modello di Bonaventura di Bagnoregio, di Robert Kilwardby – Lullo, nel Liber contemplationis (1272-1274, in latino e poi in catalano) ci dà una descrizione vivacissima, nutrita anche di esperienze personali, dei mestieri più vari. Troviamo il mercante e il marinaio, il fornaio e il barbiere, il contadino e il mugnaio, il fabbro e l’attore. Le «arti meccaniche» non sono più basse e servili, ma acquistano una dignità nuova, una valenza antropologica. Nel capitolo su Dante, Imbach – autore anche di Dante, la filosofia e i laici (2003) e commentatore del Convivio e della Monarchia – mette l’accento sulla conseguenza decisiva che comporta il primato della filosofia pratica, cioè etica e politica, sulla filosofia teoretica: «la moralitade è bellezza della filosofia» (Convivio, III, XV, 11). Dante distingue, come i Maestri delle arti di Parigi, che interpretano Aristotele in modo radicale, le competenze della teologia e quelle della filosofia, ma non condivide il loro ottimismo, per cui la felicità si raggiunge, attraverso la filosofia, nello stato presente, e neppure accetta il rinvio di Tommaso d’Aquino alla speranza che tale felicità possa realizzarsi nella vita futura. Opta per una terza via, perché «l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può» (Convivio, III, XV, 9), e l’uomo può realizzare il suo destino di essere razionale solo nella forma di un’attività a cui partecipano tutti gli uomini.
Un Petrarca passatista?
Le pagine su Petrarca analizzano la critica alla Scolastica e ad Aristotele nel De sui ipsius et multorum ignorantia. Imbach prende le distanze da chi, come Olivier Boulnois, come Alain de Libera, vede nel libello solo un arroccamento passatista: «Petrarca non è né un teorico della ragione né un filosofo della storia e non vuole e non può costruire un discorso filosofico» (Libera). Recupera piuttosto – trascurando però forse troppo il legame tra l’invettiva di Petraca e la condanna parigina del 1277, con il proclama reazionario del vescovo Tempier – aspetti che possono far leggere questo testo, sulla scorta delle ricerche di Pierre Hadot sulla filosofia antica, come una riflessione sul «modo di vivere».
Christine de Pizan: diverse miniature la ritraggono nel suo studio, nell’atto di servirsi di un leggio a ruota carico di libri. Figlia dell’astrologo di Carlo V, Tommaso da Pizzano, cresciuta nell’ambiente della corte, Christine si dedica con passione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia. Il suo Chemin de longue étude, uno specchio dei principi in forma di autobiografia, è la storia del suo percorso intellettuale, che è anche un’incessante lotta contro la misoginia dei chierici e di quanti, in generale, vogliono proibire alle donne di studiare. La metafisica è la scienza sovrana, ma non è per tutti, e qui riemergono forme di elitismo clericale: «spetta a quanti, di fatto, occupano un ruolo sovrano: ai teologi, agli alti chierici universitari, nell’universo clericale, al re saggio e perfetto, nell’ambito della società laica». Accanto alla metafisica, con una concezione più agostiniana, si impone, nell’Advision Christine, la «visione beatifica», che non è solo una consolazione sopramondana: «L’aldilà potrebbe infatti rappresentare un altro modello della società: l’Advision – che si presenta come un’allegoria – potrebbe essere letta come il manifesto di una città felice, in cui anche i laici e le donne hanno diritto alla conoscenza».
Quattro percorsi, quattro ricerche, quanto diverse tra loro, di una nuova filosofia. Alla radice della filosofia dei laici, c’è la consapevolezza – enunciata come una aperta sfida in Dante, in Margarete Porete, in Meister Eckhart – che la ricerca della verità non è solo un atto teoretico, ma coinvolge il soggetto e il mondo, è un’ «ermeneutica del sé» e una scelta di vita.