Da 25 anni Tovaglia a quadri ritorna ad Anghiari, puntuale come ogni estate, ma questa volta si sposta. L’anno scorso il lockdown aveva «sospeso» la rappresentazione dal vivo, sostituendola con un film affascinante quanto intrigante, Pan de mia, che manteneva la fedeltà dei personaggi cresciuti negli anni, ma li fissava nella sospensione struggente di una gara a chi facesse il pane migliore. Ora i personaggi tornano dal vivo, anzi nuovi se ne aggiungono, ma è la location a trasferirsi. Dalla terrazza del Poggiolino, sulle mura medievali della città della battaglia, si scende a valle, in un altro Castello, quello di Sorci, luogo noto per la bontà della cucina, per le buone frequentazioni, artistiche e politiche (è stato una sorta di cenacolo della sinistra pensante e della ricerca spettacolare), e anche per il fantasma, divenuto chiacchierato abitante d’antiche ferite.

LO SPETTACOLO, servito tra le portate di una gustosa cena molto tipica e toscana, si intitola quest’anno Filocrazia, parola dal senso «letterale» e insieme allusivo, sul potere di dispersione e insieme di tensione per un popolo e una generale condizione di perdita di un «filo» conduttore, e quindi di una guida e direzione sicura, di valori certi e non solo agognati, e spesso magari fasulli. Autori, come sempre, Paolo Pennacchini e Andrea Merendelli (che firma anche la regia), e più importante di prima Stefan Schweitzer che non dà solo il contributo «tecnico» ma ridisegna il nuovo spazio e lo anima con grande inventiva. Rispetto agli anni scorsi la struttura longitudinale, di tavoli apparecchiati e spazi scenici, si allarga (per garantire anche le norme di sicurezza ora vigenti) in un ovale fascinoso di antichi muri e luci adeguate, un «luogo comune» in cui alla vicenda narrata si aggiungono i ricordi dei molti artisti che vi hanno soggiornato e creato facendone un luogo d’affezione, da Benigni a Troisi, e ancora Bertolucci e diversi altri.

foto di Giovanni Santi

Il «filo» della vicenda si srotola dal dopoguerra del ’45, che qui ha uno spessore intenso, da cui emerge una umanità di sfollati decisi a riprendersi la vita, dopo l’oscurità di guerra e dittatura. Ma quello stato d’animo resiste ancora oggi, e in questa direzione il racconto con naturalezza si sposta. E quella «sospensione», ovvero l’assenza e la ricerca di un «filo» cui allacciarsi, sembra riflettere in modo perfino tragicomico l’indeterminatezza, credulona e pasticciona, di una condizione esistenziale assai diffusa ancora.
Dalle piccole alle grandi e grandissime cose: dall’attesa infondata del ritorno di un amore perduto (per il quale come in una domestica scelta mitologica si continua a confezionare una camicia cucendone i bottoni appunto col filo), al tentativo spesso frustrato di dare un senso al presente decifrandolo attraverso antichi incunaboli, i cui resti dispersi un restauratore cerca disperatamente di rilegare perché riacquistino un senso. E ci sono naturalmente i fili più stringenti e insieme fragili dei rapporti amorosi e dei valori e delle scelte che vi presiedono. E non manca un prete che benché obnubilato dal tempo e dai limiti del corpo, non si arrende davanti all’idea di una improbabile ecclesiastica carriera.

L’AFFRESCO insomma è di vasto respiro, seppur condotto come sempre con un sorriso di bonomia. Che si fa acre per lo spettatore quando, introdotti come tutti dall’arguzia e dalla «simpatia», arrivano i due casi emlematici della rappresentanza politica, due rivali chiacchieroni capaci di arraffare qualunque cosa e persona, in nome di improbabili promesse e di sicuri imbrogli. Opposti eppure uguali, ciarlatani che sanno spararle grosse, e per le cui mani gli abitanti di quel cortile sembrano essere già passati, visto che quell’intero cuore dell’Italia centrale è passato dalla burocrazia della vecchia sinistra all’arrembaggio dei nuovi populisti. Senza che sia cambiata, se non in peggio, la vita quotidiana di tutti (e l’autunno prepara una generale tornata elettorale).

INSOMMA un affare maledettamente serio, che come commedia popolare e divertente può però fare le pulci a ogni potere assoluto (spesso evocato con nomi e cognomi), e fornire qualche elemento di speranza al pubblico pronto a farsi coinvolgere. Anche perché i personaggi in scena sono spesso divertenti se non irresistibili, e le invenzioni comiche di tutto rispetto. Dal Parroco incorreggibile (e Mario Guiducci continua a essere la preziosa anima musicale del racconto e delle voci, tra ripescaggi struggenti dal folk, e quelli più birichini dal pop) alla sua irresistibile perpetua, e così il ragazzotto sempre fumato, il macho più apparente che solido, la fattoressa che la sa lunga, e un’intera galleria da vera commedia all’italiana, anzi «toscana», perché locuzioni e vocaboli di quel dialetto danno una connotazione, specifica quanto irresistibile, al racconto.