Qualche volta conosciamo l’esatto motivo per cui abbiamo intrapreso un viaggio. Siamo alla ricerca di un luogo preciso, di un’epoca determinata, di qualcosa di individuale, di un’immagine. Altre volte, però, ci è chiara solo la direzione che intendiamo seguire, attratti magari dal suono di una lingua. Spesso si tratta di nomi, di posti su una mappa che non abbiamo mai visitato. O forse lo scopo del viaggio sta solo nel partire». Sarebbe quasi ingeneroso riassumere il corposo lavoro di Ruth Beckermann in una citazione estratta all’inizio di Paper Bridge, uno dei film che compongono l’ampia retrospettiva che Filmmaker dedica alla regista austriaca. Eppure da quelle parole si possono trarre delle preziose indicazioni per entrare in sala e lasciarsi andare alle immagini e alle parole di un’autrice che si è messa in viaggio cercando qualcosa e, al tempo stesso, lasciandosi sorprendere. E lo spettatore con lei avrà quella sensazione, di andare incontro a qualcosa di noto e di scoprire l’ignoto. È la forza del cinema documentario, progettuale e aperto all’imprevisto.
E così, con Beckermann andiamo verso Gerusalemme (Towards Jerusalem, 1991), negli Stati Uniti (American Passages, 2011), in Europa e in Oriente (Return to Vienna, 1983; A Fleeting Passage to the Orient, 1999; Those Who Go Those Who Stay, 2013), attraversando tempi oscuri (East Of War, 1996; The Waldheim Walz, 2018), cercando di interrogarci sui demoni che hanno agitato l’umanità. Ma la regista ha affrontato anche tragitti brevi, intercettando piccole storie di diritti non rispettati e rivendicati (Arena Squatted, 1977; Suddenly, a Strike, 1978; The Steel Hammer out There on the Grass, 1981).
Dunque, un continuo rimando tra passato e presente, tra ciò che irrimediabilmente è accaduto e quello che si muoveva e modificava proprio nell’atto di filmare, di testimoniarlo con partecipazione, stabilendo una complicità. Un contemporaneo che per noi ora si è trasformato in un opaco oggetto della memoria. Non dovrebbe essere così, quando le piccole vicende al singolare diventano parte fondante della nostra storia collettiva.
I film di Beckermann (insieme al produttore e regista Josef Aichholzer, con cui ha stabilito un vero e proprio sodalizio artistico) sono racconti nei quali le immagini non si prendono tutto lo spazio, non sottolineano il significato della vita, non assumono la forma di una didascalia ridondante. È possibile che qualcosa non si veda. E quindi che si debba immaginare. Chi è davanti allo schermo è chiamato in causa, sollecitato a ricordare, a separare la verità dalla menzogna, sfidato a uno sforzo di riflessione, a confrontarsi con l’invisibile, con la natura intimamente fragile delle cose umane.
E come in una relazione amorosa, quella ad esempio tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan (The Dreamed Ones, 2016), si è vicini e lontani, attratti e respinti, in sintonia con il mondo e oltraggiati dalla storia, memori di un passato e proiettati verso l’inaspettato, sospesi in un tempo che dolorosamente altri hanno fatto scorrere per noi.