Riportare l’attenzione sul cinema di Miklós Jancsó, come sta facendo la 34a edizione del Bergamo Film Meeting con l’eponima retrospettiva sottotitolata Filmare lo spazio, recintare la storia, è un’opera meritoria, perché dà modo di confrontarsi, soprattutto ai più giovani cinéphiles, con un autore determinante per comprendere certe dinamiche in atto nel panorama cinematografico contemporaneo, e al centro dell’attuale dibattito critico. Pensiamo ad esempio all’esibizione della «resistenza» della durata (e alla riflessione che ruota attorno a questo gesto registico), vera e propria cifra stilistica di alcuni dei più ammirati esponenti del Contemporary Contemplative Cinema, quali Béla Tarr o Lav Diaz, che è riconducibile all’estremizzazione del piano-sequenza (da leggersi in termini di avvicinamento all’essenzialità come sottrazione, depurazione e ritmo) compiuta da questo rappresentante di punta della cosiddetta új hullám, la «nuova ondata» cinematografica ungherese.

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La retrospettiva si concentra sul periodo che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, privilegiando le opere realizzate in Ungheria; da questo corpus di lavori emerge poi la produzione di documentari, con cui il regista di Vizi privati, pubbliche virtù (1976) ha esordito dietro la macchina da presa. I primi sono cinegiornali realizzati su commissione: A 8. szabad május 1 (L’ottavo 1° maggio libero; 1952) è la cronaca della celebrazione del 1° maggio a Budapest; Arat az Orosházi Dózsa (Raccoglie il grano la Dózsa di Orosházi; 1953) un film politico di propaganda sul mondo della produzione agricola; Ösz Badacsonyban (Autunno a Badacsony; 1954) mostra la celebrazione delle antiche tradizioni e della cultura della vite nella regione di Badacsony. Già in questi lavori, ancora rispondenti ai canoni del realismo socialista», Jancsó riesce a dare risalto ad alcune componenti che poi diverranno delle costanti all’interno del suo percorso filmografico come la danza o le feste contadine sull’aia.

Con Halhatatlanság (Immortality; 1958) dedicato allo scultore e militante operaio, György Goldman, morto, all’età di quarant’anni, nel campo di concentramento di Dachau, il regista esplora soluzioni compositive derivate dal cinema espressionista tedesco ma sicuramente debitrici anche del neo-espressionismo wellesiano: il principale riferimento sembra infatti essere Macbeth. Anche questo lavoro è tutto interni e scenografie di cartone, tagliate con anomale angolazioni di ripresa e fotografate senza mezzi toni, per mezzo di violenti contrasti luministici che ne esaltano, stilizzandola, la componente plastica.

Quello che si configura è davvero, per dirla con le parole del titolo del celebre libro di Lotte Eisner, uno schermo demoniaco, teatro di un sabba spettrale. Al di là di una facile retorica comincia a delinearsi una prima riflessione attorno al potere, al rapporto tra oppressi e oppressori che sarà uno dei fuochi attorno cui si articolerà il discorso di Jancsó.

Derkovits, 1894-1934 (1959), documentario sulla vita e l’opera del pittore Gyula Derkovits, prosegue l’indagine tra arte, artista e potere. Per quanto riguarda questo lavoro il riferimento del regista sembra essere l’Alain Resnais di Van Gogh e Guernica. Anche qui a parlare sono solo i quadri, è la pittura che diventa cinema. Un atto creativo più che illustrativo, da cui esce l’idea di un personaggio, rintracciata nei dettagli dei suoi dipinti, piuttosto che una didascalica divulgazione di opere.

Ma anche il viaggiare di Resnais lungo le coordinate dell’immagine-tempo tracciate da Deleuze deve aver influenzato Jancsó (già sensibile alla riflessione storicistica tipica del cinema ungherese, ma da lui rielaborata in maniera assolutamente personale) come si può chiaramente intuire in Jelenlét I – II – III (Presence I – II– III; 1965/78/86). Con questo documentario il regista ci porta nel cimitero abbandonato di Bodrogkeresztúr e tra le rovine della sinagoga in Olaszliszka, in tre momenti lontani nel tempo (nel 1965; nel 1978; e nel 1986), dove, chi di volta in volta coinvolto, prova a proteggere la tradizione, il culto, dall’azione distruttrice dell’oblio. La memoria, sembra volerci dire Jancsó attraverso questo trittico, pur nelle sue continue declinazioni, ha il pregio di essere un fil rouge che assicura la continuità nella vita.