Domani è finita, si esce dalla «bolla» laddove nonostante i film che spesso ce lo mettono davanti agli occhi, il mondo sembra distante, opaco dietro al «vetro» del rito festivaliero. Persino i controlli, ogni anno sempre più assurdi ne diventano parte – entrare in sala nel Palais è come passare il check-in all’aeroporto costretti alla sete (le bottigliette d’acqua vengono sequestrate implacabilmente) e alla fame, niente biscotti o simili non ho capito ancora se per paura che nascondano una bomba o se per non sporcare le sale.

La giuria, presieduta da Cate Blanchett, annuncerà le Palme domani ma già da qualche giorno è tempo di bilanci, ieri il mercato del film ha chiuso, l’esodo delle sue migliaia di accreditati ha svuotato le sale, domani arriverà la folla del fine-settimana, non festivalieri ma curiosi, chi decide di passare un fine settimana in Costa azzurra tra star, lustrini e tappeti rossi visti da lontano dove fotografarsi col sorriso è ancora possibile.
Che festival è stato dunque questo numero 71, segnato dai divieti e conseguenti polemiche: no selfie sulle Marches, no Netflix in concorso, quasi niente America, e pure tra i giornalisti francesi c’è chi comincia a chiedersi come mai a Cannes gli Studios hanno smesso di venire e gli Oscar sono una meta sempre più lontana?

Le «novità» del cartellone, vedi quei nomi che non ricorrono ogni due anni, spesso non hanno mantenuto la promessa, viene da chiedersi cosa ci fa in gara un film come Les filles du soleil di Eva Husson, se non rispondere alla necessità di avere la presenza nazionale «femminile» (qui sì che fa tanto quota rosa), stesse motivazione di chi scommette sulla vittoria di una regista – le voci danno con ottime possibilità Lazzaro felice di Alice Rohrwacher – una cosa fastidiosissima da una parte e dall’altra, come quando agli Oscar si diceva che avrebbe vinto Greta Gerwig – e per questo intanto le davano addosso.

Non è stato così, e non dovrebbe mai esserlo, un film piace e funziona non per il gender (si sa che poi i premi sono un’altra cosa) del suo regista, e soprattutto ricondurre su questo piano, puramente mediatico, la presa di parola delle donne appare come svuotarla ancora una volta.
Il titolo era tra quelli più attesi dopo l’esordio, quel Kaili Blues che ha imposto subito Bi Gan, classe 1989, come uno dei registi importanti del millennio. E Un grand voyage vers la nuit (Un Certain Regard) non smentisce le aspettative: un film notturno, quasi un respiro di piani-sequenza sul limite del sogno e della vita per entrare nei quali si oltrepassa il confine del cinema.

Un uomo, una ragazza, un incontro di sesso appena finito. La donna asciuga i capelli, l’uomo si veste e va via. Ha un libro nella borsa con la copertina verde, il ricordo di un’altra donna, il grande amore. Luo Hongwu cerca Wan Quiwen, prova a scorgerla sui volti di ogni donna che incontra nelle sue lunghe notti, a cogliere il suo sguardo in altri occhi, a interrogare le stelle trasognate come in una vecchia canzone ripetuta con la voce stanca verso l’alba in un karaoke.

Il suo «Viaggio verso la notte», un titolo che riecheggia Cèline ma le cui oscillazioni temporali sembrano calarsi negli universi di Bolano, porta di nuovo a Kaili, luogo di una Cina fantasmatica, macerie e vecchi quartieri spazzati via dalle ruspe, i cui contorni sfumano in un lontano ricordo. Il padre di Luo Hongwuo è morto, il ristorante della sua infanzia è sempre uguale, col grande lampadario e l’insegna che è il nome della madre fuggita quando lui era un bambino. Nel vecchio orologio appeso al muro c’è ancora nascosta la sua fotografia.

Flaneur nel buio di un tempo sospeso, che non separa più passato e presente, l’uomo ritrova i frammenti di una vita, la sua, quelle di altri poco importa: l’amico, soprannominato Il Gatto ucciso, la madre e i suoi misteri, e lei, ancora lei, l’amata, somiglia a quella prostituta che lo prende in giro mentre lui vuole che disperatamente dica sì, ci siamo già incontrati. L’ultimo spettacolo del karaoke sta per cominciare, le ragazze sono tutte lì, la notte confonde i lineamenti, vai al cinema gli dice la padrona.

«Mi sono addormentato in sala e mi ritrovo qui» dice Luo al misterioso (e lynchano) ragazzino che gli propone una partita di ping pong. L’immagine in 2D è diventata in 3D, mettiamo gli occhiali e anche noi entriamo in un’altra dimensione, quasi una realtà virtuale (viene in mente il magnifico lavoro di Tsai Ming Liang visto alla VR della scorsa Mostra del cinema) Dove siamo? Dietro allo schermo (come nel Carax di Holy Motors), nell’utopia delle immagini, è l’attimo prima che diventi giorno, quando il cielo sfuma e tutto è ancora possibile. Anche volare con una racchetta da ping pong, lasciarsi condurre dai fantasmi, essere in un altrove dove il tempo è una carezza rimasta a metà.

Si può filmare il desiderio? Si possono seguire i flussi della memoria? Il tempo continua a arrrotolarsi, avanti e indietro, un volo infinito su luoghi e tracce di qualcos’altro, il «Viaggio» è una ballata: un uomo, una donna, un amore, l’inizio di tutte le storie. Eppure Bi Gan (che ha guardato anche molto Wong Kar-wai) ce lo fa scoprire come se fosse la prima volta. Avvolti dalla sensualità delle sue immagini, in cui succede anche di perdersi, entriamo nella grana del cinema, segreta come la notte.