C’è una differenza tra inchiesta giornalistica e cinema documentario. Si tratta in ogni caso di un contesto specifico. Ma la questione è come far interagire diversi livelli spaziotemporali che vanno a comporre una narrazione. Gli aspetti temporali sono differenti in un reportage, c’è una presa diretta e una «ricostruzione» attraverso più tempi. Raccontare un concetto, una tesi, oppure raccontare una storia specifica, la vita e la realtà di una storia: qui c’è una differenza anche all’interno del cinema documentario. Michael Moore per esempio parte meno da una situazione specifica e più da un contesto generale. Il mio lavoro d’altra parte non si giustappone né al giornalismo tradizionale né a quello della controinformazione. Per me il cinema cosiddetto documentario non deve raccontare un concetto oppure documentare semplicemente una storia, o il cosiddetto reale: il cinema documentario deve raccontare un’eccezione. Solo così si può vedere come si muove il reale, come si muove la vita. Bisogna partire da una eccezione, da qualcosa di speciale oltre che di specifico. Quando si incontra una storia «incredibile» può cominciare il cinema. Bisogna essere «sorpresi» da quello che trascorre sullo schermo. Ci si appassiona se le storie sono inattese, non prevedibili. Se le immagini e le situazioni non ci rassicurano, non confermano le idee preconcette che abbiamo su quel contesto.
C’è una deriva, nel cinema di finzione soprattutto, che tende a «illustrare» ciò che già ci aspettiamo, le nostre idee preconcette. Le immagini non fanno che confermare uno schema. Credo che una immagine invece dovrebbe avere la potenza, oltre che dell’eccezione, del «cambiamento». Il valore sociale e politico passa attraverso la capacità che qualcosa passi nelle immagini e cambi qualcosa della nostra percezione, intervenga nella vita. Cambiamento è scambio, relazione.
Avevo girato già Piombo fuso nella striscia di Gaza, nel gennaio 2009. Erano gli ultimi giorni dell’operazione militare «piombo fuso». Si trattava di filmare la morte, la guerra, l’inferno che entra a far parte del quotidiano. Ma nello stesso tempo sentivo il bisogno di raccontare la vita, cioè l’altro versante: sapevo che cos’è la morte a Gaza, ma che cos’è la vita laggiù? Filmare il fumo di un’esplosione più o meno lontano, filmare i cadaveri lascia aperta una domanda: che cosa c’era prima? Quale vita? Io ho cominciato come archeologo. Ecco con Samouni road in un certo senso sono tornato a fare l’archeologo. Ho «scavato» e «ricostruito», risalito la genealogia di quelle vite a Gaza, attraverso una famiglia.
All’inizio quando sono arrivato a Gaza non volevo fare un film, volevo fare una sorta di «controinformazione» in diretta. Ogni giorno filmavo qualcosa e lo mettevo on line su un sito, come un diario fatto di tanti piccoli cortometraggi. Era una esperienza diciamo «estrema», ai limiti del giornalismo. Sentivo la responsabilità di essere là e di documentare quello che succedeva nella vita, una vita in condizioni «estreme», giorno per giorno. Un giorno filmavo qualcuno vivo, spesso erano bambini, e il giorno dopo mi ritrovavo al cimitero a filmare i loro corpi interrati, i funerali di quelli che avevo filmato vivi il giorno prima. Quando ho rivisto, allineandoli, questi «pezzi di vita» mi sono reso conto che di per sé il mio filmare non cambiava nulla di quelle situazioni. Sentivo il bisogno di interagire perché qualcosa avvenisse, cambiasse, nell’interazione tra quelle vite e la macchina da presa. Allora ho incontrato questa famiglia, i Samouni.
Ho cominciato a conoscerli ed è avvenuto come uno scambio di doni. Se il mio dono era la macchina da presa, filmarli, il loro dono era parlarmi, guardare, ricordare, vivere e ri-vivere. Trasformare un atto semplice come sbucciare una arancia in qualcosa di speciale. Sbucciarla lentamente, con un gesto solenne, quasi da attore hollywoodiano, e poi donarmi uno spicchio di quel frutto. Oppure indicarmi i luoghi, gli angoli della loro casa bombardata, raccontarmi albero per albero, ripercorrere le loro vite. Con una capacità da parte loro di far emergere gli aspetti più narrativi, l’unicità di ciò che avevano vissuto. Allora, in quei momenti, ho capito che potevo cominciare a raccontare veramente la vita, la vita che cambia. Quando ad esempio questa bambina ha cominciato a raccontarmi la storia di quegli alberi che circondavano la sua casa. Albero per albero. Allora la ricostruzione della memoria faceva rivivere tutto, davanti la macchina da presa.

* Estratti a cura di Bruno Roberti