La preponderanza di statue e templi superstiti non tragga in inganno: le fonti letterarie assicurano che altrettanto importante per gli antichi greci fosse la pittura. Tuttavia, di essa resta ben poco: scarse testimonianze in Italia, tra cui la magnifica Tomba del Tuffatore di Paestum, imbarbarita da commistioni con l’arte etrusca e italica; gli affreschi minoici provenienti da Cnosso e Agía Triáda a Creta, dai palazzi di Micene e Tirinto nel Peloponneso e da Thera sull’isola di Santorini. Povera rassegna riabilitata in extremis dall’eccezionale dote di Verghìna, miniera di pittura ellenica tornata alla ribalta nel 1977, quando sembrava ormai tramontata l’età romantica e innocente delle esplorazioni archeologiche. Aigài fu la residenza dei sovrani macedoni fino al loro trasferimento a Pella.  L’usanza voleva però che i re continuassero a essere seppelliti nella prima capitale: questo il motivo per cui gli studiosi la cercarono a lungo come un El Dorado. Le sue vestigia furono scoperte

a partire dal 1855, quando archeologi francesi ne iniziarono gli scavi. Mano a mano tornarono alla luce un palazzo monumentale, decorato con mosaici e stucchi dipinti, e una necropoli, situata tra i villaggi Palatìtsia e Verghìna, estesa per più di un chilometro quadrato e comprendente oltre trecento tumuli, il più antico dei quali risalente all’XI secolo. La struttura di queste tombe, costituite da camera a volta, facciata con porta monumentale, corridoio e tumulo, ricorda quella dei tholoi micenei, allo stesso modo dei corredi funerari identificati al loro interno.

Dei grandi personaggi inseguiti dai detective della storia, però, nemmeno l’ombra finché Manolis Andronikos, santificato già in vita dai greci, che tengono all’archeologia quanto l’Italia post-unitaria alla letteratura, non iniziò nel 1952 l’esplorazione del Grande Tumulo: un’altura che già dal secolo precedente aveva attirato l’attenzione su Verghìna, un cono di terra alto 12 e lungo 110 metri innalzato all’inizio del III secolo a.C. da Antigono Gonata per proteggere le tombe dai saccheggi dei Galati. Il 30 agosto del 1977, quando Andronikos comunicò di aver rinvenuto la tomba di Filippo II, fu subito clamore sui giornali di mezzo mondo. Vicino a questa, altre due tombe reali, quella «di Persefone» e quella di Alessandro IV, l’unico figlio di Alessandro Magno e della principessa afgana Rossane, nato lo stesso anno della morte del condottiero, nel 323 a.C. Il sepolcro di Filippo è costituito da due stanze lunghe insieme quasi 10 metri, entrambe coperte da volte a botte alte oltre la metà; nella prima, rettangolare, vennero deposte le ceneri di una donna, probabilmente la giovane moglie Euridice, nella seconda, quadrata, quelle del re.

L’ingresso, imponente, ha una porta di marmo a due ante e la forma di un tempio dorico, affrescato con un fregio che raffigura una scena di caccia dipinta. La tomba fu sicuramente voluta da  Alessandro nel 336 a.C., quando il padre fu assassinato, durante il banchetto per le nozze della figlia Cleopatra con Alessandro I d’Epiro, da un ufficiale delle proprie guardie del corpo, Pausania. Questi, stando alle indagini portate avanti niente meno che da Aristotele, il celebre filosofo allora precettore di Alessandro, aveva ucciso Filippo per torbidi motivi passionali.

Sempre la stessa storia. Difficile separare la morte di Filippo dall’ascesa al trono di Alessandro: i riti funebri testimoniati a Verghìna celebravano entrambi gli eventi. Nella camera sepolcrale fu trovato

un sarcofago di marmo, all’interno del quale era stato deposto un larnax: uno scrigno d’oro contenente le ossa combuste del re defunto e la sua corona. Il coperchio era decorato con il cosiddetto Sole di Verghìna, una stella simbolica a sedici raggi causa ancora di numerosi contenziosi politici: compare, stilizzato, sulla bandiera della Repubblica ex jugoslava di Macedonia e, fedele all’originale,

su quella dell’omonima regione greca con capitale Salonicco.

Nella camera facevano mostra di sé anche le sue armi, tra le quali spicca lo splendido scudo, insieme con vasellame da banchetto e con i resti del catafalco in legno, impreziosito con oro e avorio.

È evidente quanto il personaggio che domina la scena non sia tanto Filippo, colui che aveva messo fine alla libertà della Grecia nel 338, sconfiggendo ateniesi e tebani a Cheronea, quanto suo figlio Alessandro. Le fiamme che attaccavano la pira funebre allestita per il padre, tra un funerale solenne e un seppellimento eroicomai visti prima, consumarono certamente tra le vampate anche la feroce

presa di consapevolezza di un ventenne che si sentiva predestinato. Quando sarebbe morto, a 33 anni come Cristo, le élites avrebbero parlato greco dalle Colonne d’Ercole ai monti dell’Afghanistan.

Verghìna sembra narrare questo film, quando nessun altro monumento sa raccontare con tanta evidenza Cesare e Napoleone. A lottare con il peso della storia, resta la leggerezza unica degli  affreschi conservati. Plutone che afferra alla vita con il braccio sinistro una sconvolta Persefone; Alessandro a cavallo, al lato di Filippo, che colpisce con la lancia un leone. È l’impatto tutto visivo di una delle maggiori scoperte archeologiche del XX secolo.