Opposte fazioni in piazza, a Manila, pro e contro il presidente-giustiziere Rodrigo Duterte. Un campo ha protestato contro l’eliminazione di circa 7.000 persone con il pretesto della «lotta alla droga». Un’operazione di sterminio assunta in prima persona dal presidente che – ha denunciato la Conferenza episcopale filippina – ne ha approfittato per uccidere anche marginali e oppositori. In piazza anche l’ex presidente Benigno Aquino, nel 31mo anniversario della caduta del dittatore Ferdinando Marcos, scalzato dalla «rivoluzione gialla» di Corazon Aquino nel 1986. Nel novembre scorso, Duterte ha deciso di portare i resti di Marcos (1917-1989) nel cimitero riservato agli eroi della nazione. E, la settimana scorsa, circa 150 persone ne hanno chiesto la riesumazione, e sono state represse dalla polizia davanti al cimitero.

I MANIFESTANTI hanno protestato anche per la detenzione della senatrice Leila de Lima, una delle voci più critiche nei confronti di Duterte e della «guerra alla droga». De Lima è accusata di aver estorto denaro ad alcuni boss del narcotraffico detenuti, quand’era ministra della Giustizia, tra il 2010 e il 2016. Lei afferma invece che si è trattato di una vendetta di Duterte per l’inchiesta aperta su di lui nel 2009 in quanto responsabile della commissione per i diritti umani: in merito al ruolo di Duterte negli squadroni della morte che hanno operato nella città di Davao, metropoli del Sud di cui Duterte è stato sindaco per oltre vent’anni. Ad accusare il presidente, anche un ex poliziotto secondo il quale l’allora sindaco avrebbe pagato lui e altri membri di uno squadrone della morte per uccidere criminali e oppositori (anche un giornalista e una donna incinta). Un’accusa che potrebbe portare all’impeachment di Duterte.

ANCHE l’ultimo Rapporto di Amnesty International documenta l’ondata di esecuzioni extragiudiziali seguita alla promessa di Duterte di uccidere migliaia di persone sospettate di essere coinvolte nel traffico di droga. Un massacro che il presidente-sceriffo ha deciso momentaneamente di interrompere per «far pulizia fra le forze dell’ordine, corrotte fino al midollo», implicate «in attività illecite» per quasi il 40%.

LA POLIZIA ha usato gli idranti per disperdere i manifestanti. Ci sono stati scontri fra i due opposti schieramenti. I sostenitori di Duterte e della «lotta alla droga» gridavano: «Sì alla pace, no alla destabilizzazione». Di pace, però, Duterte non vuol più sentir parlare. Dopo mesi di trattative con la guerriglia maoista, ha deciso di interrompere la tregua e i negoziati. Ha ordinato di riportare in carcere i leader dal Partito comunista e i suoi alleati, liberati per partecipare ai tavoli di negoziato, e li ha definiti «terroristi e marmocchi viziati».

IL PUNTO DI ROTTURA è stato, come già accaduto con altre amministrazioni, quello della liberazione dei prigionieri politici (circa 400), fondamentale per la guerriglia e già promesso da Duterte. Qualche giorno prima della rottura, resa pubblica il 4 febbraio, i guerriglieri del Nuovo esercito del popolo avevano denunciato le manovre del governo, intenzionato a usare i negoziati per disarmare i combattenti ed entrare nei territori da loro controllati. Infatti, a gennaio, l’esercito aveva provocato uno scontro a fuoco in cui erano rimasti uccisi otto soldati e un guerrigliero. I mediatori, che si trovavano a Roma per un nuovo round di negoziati, sono dovuti rientrare in tutta fretta. «Preparatevi a una lunga guerra – ha detto Duterte ai soldati – la pace non sarà per questa generazione».