La macchina dei soccorsi si è messa in moto. Un atto dovuto dopo la dichiarazione di stato di calamità nazionale dichiarato dal governo filippino per far fronte al disastro umanitario provocato dal supertifone Hayan, o «Yolanda» come lo chiamano a Manila. Le Nazioni unite, che hanno comunque già iniziato a operare da giorni attraverso il Programma alimentare mondiale (Wfp) e Ocha (il braccio umanitario del segretariato), hanno lanciato un appello con la richiesta di 301 milioni di dollari (circa 200 milioni di euro). Una richiesta che viene diretta in forma ufficiale e formale a tutti i governi del mondo che, a loro volta, oltre a utilizzare il canale Nazioni unite, finanziano le proprie Ong o agiscono con la cooperazione nazionale.

Per ora si sono già mossi gli Stati uniti (che more solito hanno affidato il compito ai militari dell’aviazione e della portaerei George Washington accompagnata da altre navi), la Gran Bretagna con la Daring (un destroyer per usare il gergo della marina reale), mentre altri Paesi hanno messo sul piatto (pledge è il termine rituale, la promessa) diversi milioni: dieci il Giappone, nove l’Australia, uno la Nuova Zelanda, Paesi che in quei mari hanno interessi non solo umanitari. Eppoi le charities: Ong, fondazioni, associazioni umanitarie. In Italia in prima linea c’è «Agire», che ne raccoglie diverse, nel Regno Unito «Dec», un consorzio di 14 organismi tra cui Oxfam e Charitas Gb. Proprio il capo di «Dec», Salah Saeed, ha comparato il dramma filippino al disastro dello tsunami. E i paralleli saranno probabilmente tanti perché. Anche oggi, come allora, la solidarietà umanitaria si intreccia con la geopolitica degli aiuti che i governi fanno guardando alle alleanze. E c’è da scommettere che la Cina si farà avanti. Quanto al nostro governo, la Farnesina fa sapere di avere messo a disposizione un milione di euro suddivisi tra Wfp, Croce rossa e aiuto diretto (un aereo con viveri, medicinali e attrezzature per l’emergenza).
La situazione comunque è grave, gravissima e per ora non è il caso di cercare il pelo nell’uovo. Benché per il National Disaster Risk Reduction and Management Council, l’agenzia filippina per la riduzione del rischio che sul suo sito pubblica costantemente gli aggiornamenti, i morti accertati risultino «solo» circa 1.800, con quasi 3mila feriti e… 82 dispersi, il bilancio di 10mila vittime e forse più, continua a girare senza che nessuno si senta di smentirlo (è invece forse esagerata la stima di 10mila vittime nella sola Tacloban). Così come nessuno smentisce i 600mila dispersi di cui si parla da giorni e che probabilmente sono già morti. Per altro, il numero delle persone colpite dal tifone, che all’inizio le Nazioni unite avevano fissato a 4,5 milioni, è salito prima a nove e poi a undici, ossia più del 10% della popolazione che abita le 7mila isole dell’arcipelago di un Paese così insularmente frammentato che per fare una vera stima del danno occorreranno mesi, non giorni. Alcuni luoghi restano infatti inaccessibili. L’Onu conferma anche un’altra cifra spaventosa e destinata a salire: quella di 670mila sfollati, gente in fuga da case devastate, campagne allagate, edifici distrutti. E mentre Valerie Amos, la sottosegretaria Onu per gli affari umanitari e l’emergenza, è già arrivata a Manila, Ban-ki-moon la situazione la descrive con una parola: heartbreaking, strazio. L’Onu è intervenuta rapidamente mettendo a disposizione subito, dal suo portafoglio, 25 milioni di dollari.

Col tempo continua ad aumentare anche la consapevolezza su quante isole ha veramente investito con la sua violenza il tifone. Si era detto «alcune», poi cinque, adesso almeno sei in forma grave. Nessuno si aspettava questa intensità: onde alte 15 metri provocate dal turbinio di una enorme massa d’aria e acqua che corre a 250 km all’ora con picchi di 275. Perché? È una domanda – quella sulla natura che sceglie nuove strade – che non può che rimbalzare sulla conferenza internazionale di Varsavia, dove si deve decidere il superamento del Protocollo di Kyoto ma da dove per ora esce solo la promessa di far presto o il gesto eclatante dell’inviato filippino che decreta che digiunerà per tutta la durata del summit. È già stato imitato da altri, soprattutto giovani attivisti ecologisti che non si aspettano molto dal consesso internazionale.

Se a Manila si conterà per settimane o mesi, i danni del tifone in Vietnam e in Cina sono in parte già noti. Benché Hayan sia arrivato sul continente già privo di forza e declassato di rango, e benché Vietnam e Cina avessero avuto il tempo di attrezzarsi, il bilancio ufficiale racconta di vittime anche lì: in Vietnam ci sono stati 13 morti, molti altri invece in Cina da cui però non ci sono ancora dati definivi.