Un anno fa circa Abu Sayyaf, Bangsamoro Islamic Freedom Fighters e il gruppo dei fratelli Maute hanno dichiarato la propria adesione a Daesh: si tratta di islamisti filippini agguerriti e spesso associati a banditismo e delinquenza.

Da alcuni giorni sono protagonisti di una vera e propria insurrezione a Marawi nel sud del paese; a causa di questi eventi il presidente Rodrigo Duterte, primo leader filippino originario proprio dell’isola meridionale del Mindanau, ha proclamato per 60 giorni la legge marziale in quella parte del paese minacciando di allargarla a tutto il territorio nazionale. Duterte si è visto inoltre costretto ad accorciare la visita a Mosca dove ha incontrato il suo «eroe» Vladimir Putin.

Rodrigo «Du30», come viene appellato, ha dovuto anche anticipare l’acquisto di armamenti da Mosca, per rinforzare subito le squadre militari filippine impegnate nella lotta che dura da anni contro le formazioni indipendentiste islamiste. Nell’isola di Mindanau – un territorio che ospita oltre 20 milioni di abitanti di cui 5, stanziati per lo più nelle aree occidentali, sono musulmani – da decenni è in corso uno scontro tra autorità centrale di Manila e diversi gruppi islamisti: in 40 anni ci sarebbero state almeno 150mila vittime.

E proprio ieri, secondo quanto comunicato da Manila, a Marawi City (200mila abitanti) jihadisti avrebbero dato vita a scontri armati contro l’esercito filippino, occupando palazzi governativi, dando fuoco a un carcere e sequestrando alcuni ostaggi, tra cui un prete. In un’altra città il capo della polizia sarebbe stato decapitato. Per questo Duterte, non nuovo al pugno duro, ha promesso di muoversi «alla Marcos».

I responsabili del recente attacco a Marawi sarebbero gli uomini del gruppo Maute che ha la sua base operativa nel Lanau del Sud, nell’area del Mindanau musulmano; ma secondo membri del governo di Manila i recenti scontri sarebbero scoppiati a seguito di un’operazione della polizia filippina per stanare il leader del gruppo Abu Sayyaf, Isnilon Hapilon, che si è autoproclamato emiro di queste zone del paese, dove già nel 2016 era stata instaurata una sorta di indipendenza e affiliazione al Califfato nella città di Butig poi sconfitta dall’esercito filippino. Isnilon Hapilon ha su di sé una taglia di 5 milioni di dollari stabilita dal Dipartimento di giustizia americana.

A seguito dell’azione dell’esercito, secondo il capo delle forze militari filippine, il generale Eduardo Ano, si sarebbe sviluppato il conflitto che da ormai tre giorni ha portato Manila a perdere quasi il controllo di un’intera città, costringendo Duterte a instaurare la legge marziale, prevista dalla costituzione del paese.

Secondo Ano – che ha parlato delle operazioni in corso a Marawi al telefono da Mosca dove aveva accompagnato il presidente Duterte – Hapilon sarebbe rimasto ferito in un attacco avvenuto nel gennaio scorso e sarebbe protetto da una dozzina di suoi uomini. Di fronte al rischio della nuova azione militare, il leader islamista avrebbe richiesto il sostegno di Maute.

I militari filippini avrebbero effettuato attività di perlustrazione e successivamente di attacco scoprendo bandiere nere all’ingresso di ospedali e altre strutture cittadine. Le truppe hanno isolato i principali punti di ingresso e di uscita della città per impedire la fuga ad Hapilon: «Sono un piccolo gruppo, di fronte a un numero enorme di forze governative: condurremo azioni casa per casa e faremo di tutto per rimuovere questa minaccia» ha detto Ano, specificando la difficoltà di agire in un contesto urbano con il rischio di causare la morte di civili.

La «bonifica» da parte dei militari di queste sacche islamiste era una delle promesse elettorali di Duterte, ma nelle Filippine, fin dai tempi del Moro Islamic Liberation Front, le volontà indipendentiste costituiscono un problema per Manila. Il gruppo Maute (noto anche come Khalifa Islamiyah Mindanao), invece, è entrato sulla scena solo nel 2012, alzando il tiro proprio con l’arrivo di Duterte alla presidenza: 11 mesi fa avrebbe fatto esplodere una bomba in un mercato della città natale del presidente, Davao City (14 morti e decine di feriti); il gruppo è considerato responsabile anche della bomba sistemata vicino all’ambasciata Usa lo scorso novembre a Manila.