Viviamo in tempi assistenziali. Avendo introiettato l’idea che alle tragedie e alla cattiva sorte in genere non si possa porre rimedio vero, né tantomeno avviare una politica seria di prevenzione nei loro confronti, stiamo sviluppando una cultura, sempre più diffusa, dell’assistenza. Assistere gli altri nella loro sfortuna è un fatto nobile ma quando sostituisce lo sforzo di un superamento della loro disgrazia e mira solo a pratiche di sollievo, diventa, indipendentemente dalle buone intenzioni, il complemento necessario della progressiva chiusura verso l’alterità con cui violentiamo il nostri legami sociali e l’ambiente in cui viviamo. La posizione di benefattori crea un sentimento narcisistico di generosità che ci protegge dal terrore: lo stato d’animo in cui l’orrore per ciò che accade al nostro simile diventa premonizione infausta sul nostro futuro. Esiste un legame innegabile tra la diffusione delle pratiche assistenziali, che stanno sostituendo lo spazio della cura, e la nostra anestesia nei confronti dell’orrore.

Prendere cura di sé e dell’altro implica l’accettazione del lavoro del lutto: trasformare le incomprensioni, i conflitti e le inevitabili perdite in un processo di rinnovamento. L’assistenza, invece, si rassegna alla perdita ed è, di fatto, una pratica di consolazione. Più che costruire prospettive nuove aspira a conservare e siccome la conservazione delle cose in uno stato immutabile contraddice il senso della vita deve convivere con l’amputazione che il tempo opera su ciò che resta immobile e diventare complice della menomazione. Per intrinseca necessità l’assistenzialismo obbedisce a modelli che inquadrano la vita in un «come dovrebbe essere» e rifuggono il suo reale svolgimento. Il sollievo dal dolore nelle sua forme più immediate e acute si allea con uno stato ideale di esistenza, che evita di fare i conti con l’esperienza reale.

La natura vera della cultura dell’assistenza è socialmente invisibile e solo a tratti si rivela in modo indiretto come è accaduto con le linee guida sulla fecondazione eterologa che gli esperti hanno consegnato al governo. In esse si legge che si deve garantire compatibilità di colore della pelle, di gruppo sanguigno e di colore di capelli e di occhi tra i donatori e la coppia che riceve la donazione. L’intento degli esperti sarebbe quello di rendere la fecondazione eterologa del tutto assimilabile a quella omologa per proteggere i bambini dalla scoperta del segreto del loro concepimento. In realtà la creazione di un falso più perfetto del vero (nelle coppie omologhe accade che i figli siano fisicamente molto dissimili dai loro genitori) pretende di eliminare sul piano dell’apparenza la particolarità della genitorialità eterologa: seppure essa consenta una relazione intima con il bambino fin dal suo concepimento (che non è possibile nell’adozione), disturba nelle fantasie che animano la loro relazione di desiderio la reciprocità tra i genitori. Di questa difficoltà i genitori dovrebbero farsi carico, senza nasconderla a loro stessi, per rinnovare la loro intesa, innanzitutto erotica, che può sempre avere la meglio sulla delusione. Le linee di guida per la fecondazione eterologa che gli esperti propongono assisterebbero loro, invece, a negare la particolarità della loro posizione e ad omologarsi a schemi di genitorialità che trasformano il narcisismo della somiglianza fisica con i figli in regola di vita. Se questa strada fosse effettivamente conseguita i genitori mancherebbero il vero banco di prova della loro funzione: la capacità di misurarsi con la differenza auspicabile dei loro figli.