È davvero uno spazio in costruzione quello investigato da Filippo Focardi nel suo ultimo libro, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe (Viella, pp. 356, euro 29). Troppo spesso, infatti, si tende a dimenticare che la memoria pubblica non è mai politicamente neutra e men che meno inerte. Già autore di importanti ricerche sulla «guerra della memoria» scatenatasi in Italia subito dopo il 1945, in questo testo lo storico ha raccolto, rivisto e ampliato, alcuni dei suoi studi più recenti sulle contese generate dall’eredità del Novecento nelle società europee.

Il focus principale è ovviamente sul caso italiano, inserito però nella cornice continentale. Focardi avverte chiaramente che ci troviamo oggi oltre la crisi del «paradigma antifascista», iniziata grosso modo negli anni Ottanta e culminata agli inizi del nuovo millennio nella stagione degli attacchi più violenti alla Resistenza. ln un presente scandito dalla crisi economica e pandemica, l’impresa non facile in cui si cimenta è quindi comprendere quali siano i caratteri di una fase nuova ma, nello stesso tempo, ancora profondamente segnata dalle dinamiche degli ultimi quarant’anni. Dialogando criticamente con le pubblicazioni più recenti sulla questione del «ritorno» del fascismo, l’autore utilizza la prospettiva della storia della memoria per interrogarsi sulle analogie e sugli elementi di continuità nelle destre neo-nazionaliste, «populiste» e razziste, che proliferano in Europa e nel mondo. Sebbene non ci siano dubbi sul fatto che il fascismo sia da considerare sepolto come modello politico, il suo ricordo è invece è ancora molto presente e influente. Da qui l’esigenza di storicizzarlo.

NEI PRIMI CAPITOLI lo storico torna sull’«alibi del cattivo tedesco» a cui ha dedicato uno studio uscito nel 2013. Sulla scia di Tony Judt, Focardi suggerisce l’esistenza di due fasi: la prima, iniziata dopo il 1945, è stata quella del mito della Resistenza europea, e soprattutto dell’attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità della guerra, con la conseguente rimozione del problema del fascismo, dei regimi collaborazionisti, nonché dei crimini di guerra compiuti da tutti i belligeranti. La seconda, dopo il passaggio del 1989, caratterizzata da un «eccesso compensativo di memoria» per fondare o rifondare nuove identità collettive dopo la fine della guerra fredda. Attingendo a un’ampia mole di documenti, in cui agli studi storiografici si alternano stampa, film e serie televisive, il libro mostra come «l’interpretazione antifascista e quella post-fascista» (corroborata in seguito dalla storiografia di De Felice) «hanno trovato un punto di contatto nel ricorso al paragone con il nazismo».

NELL’IMMEDIATO dopoguerra sarebbero scaturite alcune convergenze nel giudizio sul fascismo con effetti di lunga durata: dalla presunta inesistenza del razzismo e dell’antisemitismo fascista a quella dell’estraneità dell’Italia all’Olocausto, fino alla diffusione dell’immagine del «bravo italiano» rappresentato oggi da figure come Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci.
L’approfondimento sulla storia della memoria della Shoah, in particolare, permette all’autore di mettere a fuoco come nella crisi dell’antifascismo, e quindi della figura del partigiano, il «paradigma vittimario» sia diventato prevalente. La società italiana ha acquisito maggiore consapevolezza storica dell’Olocausto. Tuttavia, la Giornata della memoria (istituita nel 2000) ha contribuito ad alimentare «una memoria preminentemente martirologica» e fondata sull’«auto-vittimizzazione nazionale». Si tratta di una tendenza da leggere a livello europeo, con lo sguardo puntato sul modello della riunificazione culturale tedesca, che comunque si distingue da quello italiano per aver fatto davvero i conti con il nazismo.

Più in generale, l’affermarsi della contrapposizione totalitarismo/anti-totalitarismo al posto di quella tra fascismo e antifascismo è considerato da Focardi un radicale cambiamento delle coordinate. Ecco allora che il Giorno del ricordo (istituito nel 2004), fortemente voluto dai partiti della destra per commemorare le vittime italiane delle foibe, è anche figlio dell’anticomunismo che contraddistingue le politiche europee e, pur essendo parte integrante della narrazione vittimaria, alla prova dei fatti, «ha creato una memoria pubblica competitiva e di segno contrario rispetto a quella della Shoah».
In Italia un ruolo importante nella costruzione di una rinnovata memoria nazionale è stato svolto dalla Presidenza della Repubblica, soprattutto nel settennato di Ciampi. Lo studioso non nasconde i problemi insiti nel dispositivo neo-patriottico avanzato dal Quirinale, soprattutto quando arriva a rasentare l’idea di una «memoria condivisa».

SULL’ANTIFASCISMO è tornato a battere con più insistenza Mattarella. Dall’analisi delle celebrazioni del 70° anniversario della Liberazione si evince come gli argini eretti contro il revisionismo anti-resistenziale abbiano contribuito all’ultimo cambio di fase: a una rivalutazione della Resistenza, ma anche a una sua rilettura scivolosa, in cui «le motivazioni etiche prevalgono su quelle politiche, e i progetti di trasformazione sociale e politica risultano pressoché assenti». Il cambiamento si inquadra «in un paradigma, anche in questo caso europeo, che enfatizza la figura dei «giusti» che si sono impegnati con atti di solidarietà», più che con le armi, «contro l’oppressione dei regimi totalitari».
Lo studio delle politiche del ricordo dell’Unione europea mostra il percorso compiuto dalle prime risoluzioni degli anni Novanta a quella del settembre 2019, approvata da popolari e socialisti. In quest’ultima si rintraccia nel patto Ribbentrop-Molotov l’origine della seconda guerra mondiale, si indica nel 23 agosto la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari, e si esorta a perseguire penalmente i responsabili dei crimini nazisti e comunisti. La risoluzione, fortemente voluta dai paesi dell’Europa orientale, esplicita il bisogno di difendersi dalle nuove minacce per la democrazia, tra le quali figura quella rappresentata dalla Russia di Putin.

SIAMO cioè sul piano di una «geopolitica della memoria» che produce riduzioni e assimilazioni che l’autore considera inaccettabili – «non si può equiparare Berlinguer a un aguzzino della Stasi», commenta Focardi – e mette in luce le tensioni interne all’Unione stessa e al campo formalmente condiviso del «paradigma anti-totalitario». «Mentre, infatti, paesi come la Polonia e l’Ungheria esaltano il ruolo della nazione, le politiche di Bruxelles considerano il nazionalismo una sorta di tabù, l’origine di tutti i mali dell’Europa». La «ridefinizione dei paradigmi della memoria» nella sua costante evoluzione si spiega dunque alla luce delle trasformazioni della società e della politica.
Dal punto di vista storiografico, la nuova cronologia avanzata da Focardi risulta pertanto uno strumento prezioso per muoversi in un cantiere dai fili interconnessi. Ci fa capire che il passato è materia viva per il presente, ma può diventare molto insidioso quando la memoria viene separata dalla storia. Quando viene confezionata e calata dall’alto, di fatto svuotandola di contenuto.