Al TFFDoc in questi giorni vanno in scena le figure umane nel paesaggio, tra memoria, deriva e utopia. La competizione internazionale documentari si è aperta con Ouvertures, uno strano oggetto artistico in bilico tra teatro, videoarte e cinema, tra i caraibi e la Francia, tra le strade di Port-au-Prince e le montagne del Jura, firmato da un collettivo denominato The Living and the Dead Ensemble.

QUESTI GIOVANI artisti, performer e poeti haitiani hanno trasformato in immagine in movimento, con la collaborazione del regista Louis Henderson e dello sceneggiatore e produttore Olivier Marboeuf, un progetto di traduzione e riscrittura scenica di Monsieur Toussaint di Édouard Glissant dedicato a Toussaint Louverture e all’esperienza mitica dei cimarroni, schiavi fuggitivi. Figura complessa, Louverture è stato uno dei protagonisti della rivoluzione haitiana (1791-1804), esperienza di liberazione e lotta che trovava forza e ispirazione anche nella spiritualità vudù e nelle figure di una mitologia yoruba che i giovani dell’Ensemble fanno rivivere nella contemporaneità. In Ouvertures, è come se una spirale infinita portasse i morti e i vivi a incrociarsi e a sfiorarsi tra le frange del tempo, a comunicare attraverso un codice segreto a cui si accede nel cuore della trance creativa. Questi giovani intellettuali neri che studiano, ragionano, scrivono, traducono e creano insieme sono un’immagine potente dell’impegno che richiede sempre l’esercizio della libertà. A inizio e fine film ricorrono immagini girate in una grotta, dimora di energie ctonie, condensazione minerale di una riflessione sullo scavo, sull’archivio e sulle forze primordiali che muovono la storia e lo spirito nell’oscurità.

IMMERGERSI e riemergere, come muoversi tra passato e futuro nello spazio della postcolonia? Due giovani attori discutono del concetto di utopia: uno aspira a essere non solo haitiano ma «cittadino del mondo», l’altro lo invita a considerare il rischio che la sua utopia cancelli le specificità del luogo e della cultura da cui proviene. Come una strana eco, il concetto di utopia rimbalza in film completamente diversi in questo TFF. «Mamma che cos’è un’utopia?» chiede un bambino nel bellissimo Un soupçon d’amour del nonagenario Paul Vecchiali. «L’utopia è un luogo che non esiste» dice la madre al figlio che replica «Ma allora non serve a niente» «Sì, invece, l’utopia serve a sognare» replica lei. Di gente che sembra non potersi permettere il lusso di sognare parla invece un altro documentario del concorso internazionale, The Last Hillbilly di Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe.

Nel 2017, la regista franco-tunisina aveva firmato Je ne me souviens de rien, potente film d’esordio sul suo disturbo bipolare e sulle difficoltà di costruirsi un’identità propria facendo i conti con la storia famigliare, il plurilinguismo, nuovi interrogativi morali, spirituali e sessuali. Questa volta, in coppia con Jenkoe, Bouzgarrou cambia completamente orizzonte geografico, linguistico e culturale per trasferirsi in Kentucky e, attraverso la guida di un giovane uomo dolente, poeta proletario, cantore di un mondo scomparso, cogliere lo spirito di una comunità alla deriva in una zona deindustrializzata.

LI CHIAMANO «white trash» o, in alcune zone «hillbillies», sono poveri, sporchi, ignoranti, razzisti, ripiegati sulle proprie piccole comunità stigmatizzate. Lo stigma che li inchioda è la sola identità a cui aggrapparsi anche ora che le attività produttive di montagna e di miniera da cui nasceva la parola «hillbilly» non esistono più. A questa gente è stato tolto tutto: terre, lavoro, affetti, speranze, dignità. Per di più, le stesse fabbriche che hanno distrutto gli esseri umani hanno anche avvelenato le terre e gli animali. Benché trasferiti in un contesto differente, al cuore di quest’opera e della precedente della regista, troviamo gli stessi interrogativi sull’essere e sull’esilio, sulla violenza sociale e sul desiderio di costruirsi affetti capaci di colmare il vuoto lasciato dall’assenza di ogni forma di giustizia, di cura e organizzazione collettiva.