Un fantasma si aggira per Roma in questi giorni: si deposita con i suoi multipli, aderisce alle pieghe dei muri della nostra città. È il fantasma di una figura disturbante, molto amata e molto odiata ancora oggi, quella di Pierpaolo Pasolini, che Ernest Pignon-Ernest ci restituisce sotto forma di pietà drammatica e magnetica, capace di riassume in sé l’icona del poeta intellettuale ma anche il suo doppio-vittima, tenuto in braccio come un Cristo morto.

I rimandi pittorici saltano immediatamente agli occhi nella citazione caravaggesca (e michelangiolesca) del braccio pendente della deposizione vaticana, mentre la nostra memoria corre ai medesimi rimandi iconici cari a Pasolini quando, in Mamma Roma, sacralizzava la fine in galera del giovane proletario Ettore come un Cristo morto del Mantegna. Non è un’immagine che possa lasciare indifferenti: ho visto macchine frenare e conducenti scenderne per fare una foto con il cellulare, persone fermarsi e interrogarsi davanti a questi grandi fogli di carta incollati. Non sempre le reazioni sono state di ammirazione, né questa può essere un’opera che chiede sorrisi e parole di convenienza. Qualcuno ha anche voluto rimuoverla in nome del rispetto per la pulizia urbana. Per chi conosce l’artista francese che in questi giorni gira per la nostra città cercandovi i luoghi più simbolici e pertinenti alle sue installazioni, l’intelaiatura murale più adatta per materia, colore, segni già presenti, ma anche la luce funzionale al suo pennello, la sua firma appare immediata: Ernest Pignon-Ernest ha già lavorato nel nostro paese con installazioni importanti a Certaldo, in provincia di Firenze, nel 1980, e a Napoli, tra 1988 e il 95, dove Pasolini ricorre come una figura di forte presenza. A Certaldo, luogo di nascita e morte di Boccaccio, ispiratore del «Decameron» pasoliniano, Pignon ha montato un allestimento pensando all’immagine del poeta come vittima del nostro tempo. A Napoli lo ha evocato inserendolo su un muro rossastro pompeiano presso la cappella di Sansevero, in un quadro caravaggesco dove c’è un Davide che regge con la mano la testa di Golia mentre con l’altra tiene la testa di Pasolini.

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L’installazione di Roma è dunque la terza parte di un lavoro dedicato al nostro più dolce e profetico intellettuale, ancora oggi bersaglio del perbenismo borghese, ma punto di riferimento basilare per le generazioni di insoddisfatti passati e futuri.

Parlare di street art per Ernest Pignon è riduttivo così come fermarsi alla superficie del modo in cui questo artista ha deciso di lavorare fin dal suo esordio nel 1966, quando mise su una installazione che rifletteva i pericoli del nucleare, con la silhouette drammatica di tutto ciò che restava di una vittima di Hiroshima. Dall’esordio in poi tutti i suoi lavori sono stati riflessioni critiche di ombre della storia e di nodi tragici e complessi delle nostre società. Penso alle installazioni straordinarie a Parigi per il centenario della Comune, con la cascata di vittime della settimana di sangue srotolata lungo la scalinata della basilica del Sacré Coeur, ai personaggi che Pignon sceglie, figure sempre inquiete e piene di interrogativi, Rimbaud, Genet, Artaud, Majakovskij. Fino al lavoro più completo e straordinario di Lyon, nell’antica prigione Saint Paul, prima che venisse trasformata in uno spazio universitario, dove sono state torturate e uccise molte vittime del nazismo ricordate dall’artista, tra cui lo storico Marc Bloch, ma anche militanti del movimento di liberazione algerino, come Ahmed Cherchari, o il nostro anarchico Sante Caserio.

Pignon riflette sulle condizioni di costrizione e disumanizzazione dei prigionieri e li immagina spersonalizzati nella ripetizione ossessiva dei suoi artistici multipli. L’idea di arte critica di Proudhon è alla base del lavoro di Pignon: sua è un’arte in situazione, fortemente intrisa di spirito etico, un’arte giustiziera, ossia attiva, che non si limita alla semplice espressione, ma eccita e stimola. Se vi capiterà di vedere il film documentario su Pignon e Napoli, del collettivo Sikozel, vedrete come le riflessioni delle persone comuni, del popolo, degli scugnizzi dei vicoli, sono pertinenti e penetranti, come fanno pensare alla forza comunicativa intrinseca a una vera opera d’arte, che si trasmette anche a chi non ha strumenti per leggerla.