In un suo saggio Sigmund Freud scrisse «se un uomo è stato il beniamino della madre, conserva per tutta la vita quel sentire da conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé». Il rapporto con i genitori plasma la vita. Gli artisti spesso rielaborano attraverso la propria opera i rapporti con madre e padre. La relazione può essere caratterizzata da un’assenza, oppure è una ferita che non si è rimarginata o un conflitto mai sanato. A volte è invece un legame vero e profondo che crea un’ispirazione. Nel mondo del pop e del rock la relazione con i genitori è stata per molti protagonisti la chiave di lettura di un’intera carriera. E alle volte, in contrasto a quanto ipotizzava Freud, il successo non nasce dall’affetto, ma dal desiderio di riscattate un’infanzia solitaria in cui non ci si è sentiti amati.

Bono

«Il dolore nel mio cuore fa così tanto parte di chi sono». Bono ha ormai 55 anni, ma ancora oggi ritorna ossessivamente su un trauma che gli ha segnato l’esistenza: la tragica scomparsa della giovane madre Iris, morta improvvisamente al funerale del padre per un aneurisma celebrale, davanti ai suoi occhi. Il futuro leader degli U2 aveva quattordici anni. Un trauma che ha segnato la sua vita e tantissime canzoni a cominciare dalla dolorosa Tomorrow del 1981 (definita «un racconto dettagliato del funerale di mia madre») per finire nei brani dell’ultimo album, l’autobiografico Songs of Innocence, come Iris (Hold me close), Cedarwood Road e The Crystal Ballroom. «Improvvisamente mi sono accorto che sono quarant’anni che non c’è più. La figura della madre è così importante per i musicisti rock. Mostratemi un grande cantante e avrete uno che ha perso la mamma da giovane», ha detto quest’anno in un’intervista. La mancanza della madre ha significato per Bono anche un rapporto ruvido con il burbero padre Brendan a cui ha dedicato l’album How to dismantle an Atomic Bomb (la bomba atomica del titolo era proprio il genitore). Il brano Sometimes You Can’t Make It on Your Own racconta la relazione tra i due, dura e segnata dal vuoto incolmabile della scomparsa di Iris.

Kurt Cobain

Il recente documentario realizzato dalla Hbo Montage of Heck ricostruisce senza reticenze la vita tormentata del leader dei Nirvana. I genitori di Kurt Cobain divorziarono quando aveva nove anni. Per lui fu un colpo durissimo. «Avevo vergogna – confesserà al giornalista John Savage -. Mi vergognavo per i miei genitori. Non riuscivo ad affrontare i miei amici a scuola. Io volevo una famiglia tradizionale». Il trauma divenne anche più profondo quando fu di fatto rifiutato sia dalla madre che dalla nuova famiglia del padre. Cobain, bambino irrequieto e adolescente problematico, si sentì perennemente inadeguato, concentrò la sua angoscia nella sua musica, divenne una star, ma anche un adulto fragile (eroina, matrimonio turbolento).
Il successo convinse sua madre, Wendy O’Connor, a tornare sui suoi passi e a riavvicinarsi a lui. Una «conversione» che ha sempre destato qualche perplessità. Dopo la morte del figlio, la donna ha attaccato gli altri due membri dei Nirvana Krist Novoselic e Dave Grohl accusandoli di essere avidi e affermando che Kurt in realtà li odiava. Due anni fa ha messo in vendita una casa prefabbricata dove Kurt aveva passato con lei parte dell’infanzia (prima di essere messo alla porta) per mezzo milione di dollari. Il valore commerciale dell’immobile era di circa 65mila dollari. «Non è mai stato nella mia natura avere vantaggi dall’incredibile successo di mio figlio», ha dichiarato.

Tupac

La vita violenta di Tupac Shakur si concluse a Las Vegas nel settembre 2006 quando la sua auto venne crivellata di colpi d’arma da fuoco. Il caso non è mai stato risolto anche se probabilmente la sua esecuzione maturò all’interno di una faida nel mondo dell’hip hop. La sua vita fu scandita dalla violenza sin dalla nascita. La madre Afeni lo partorì quando era in permesso dal carcere dove era detenuta con l’accusa di aver partecipato a un attentato dinamitardo delle Black Panthers (fu poi assolta). La storia del suo rapporto con la madre Tupac la raccontò nel brano-confessione Dear Mama, uno dei suoi più grandi successi. Il rapper non ebbe mai una figura paterna di riferimento, il vero padre rimase uno sconosciuto. Il marito della madre, Lumumba Shakur, abbandonò la famiglia e qualche anno dopo morì in circostanze misteriose («Il codardo non c’è mai stato. Quando morì non ho pianto, perché non potevo sentire niente per un estraneo» recita il brano). Il fratellastro di Lumumba, Mutulu, divenne il nuovo compagno della madre e il suo patrigno. Accusato di una sanguinosa rapina a un portavalori nel 1979, dovette fuggire dalla polizia e venne arrestato nel 1986 e condannato a 60 anni di carcere.
Tupac e la madre si trasferirono da Baltimora in California, lei divenne dipendente dal crack e i due si trovarono poveri e senza casa. Il rap fu la via d’uscita dalla miseria, ma non dalla violenza e Tupac venne coinvolto in diversi scontri a fuoco (uno dei quali gli lasciò 5 fori di proiettile nel corpo).
Il rapper però non dimenticò mai che la madre gli era stata sempre vicino anche nei momenti peggiori. «Anche quando eri schiava del crack sei sempre stata una regina nera – recita Dear Mama -. Una madre povera affidata ai servizi sociali. Dimmi come sei riuscita a crescermi. Non c’è modo in cui potrei ripagarti». Oggi Afeni guida la Tupac Amaru Shakur Foundation che finanzia con i diritti che provengono dalla musica del rapper ucciso programmi di studio per i giovani disagiati.

Maynard James Keenan

Il leader dei Tool, Maynard James Keenan, ha messo in musica il rapporto con la madre in quello che a oggi è l’ultimo album della band, 10,000 days uscito nel 2006. I 10mila giorni del titolo si riferiscono ai 27 anni di agonia sofferta dalla madre Judith Marie rimasta paralizzata da un aneurisma. Per il figlio la sua sofferenza è rimasta un’ossessione (cantata anche nel brano che porta il suo nome firmato da Keenan con gli A Perfect Circe). La donna pur nel dolore non ha mai perso la sua fede e la sua religiosità, né ha mai manifestato rabbia. Un coraggio e una determinazione che per il cantante rimangono un mistero incomprensibile. E una lezione di vita. «Sei la luce e la strada», canta Kennan nelle canzoni dell’album: «Non hai avuto una tua vita. Ma ne hai salvato una».

Art Alexakis

Alcuni dei più grandi successi degli Everclear, band punk pop di riferimento della scena Usa anni ’90, nascono dalla tragica giovinezza del leader della band Art Alexakis. Quando aveva cinque anni il padre lasciò la famiglia che cadde in miseria e dovette trasferirsi in un quartiere di frontiera. Art venne stuprato a otto anni, sia lui che il fratello divennero eroinomani in giovanissima età. Il fratello morì di overdose. Poco dopo fece la stessa fine la fidanzata di Art. Il futuro rocker reagì tentando il suicidio.
La rabbia nei confronti del padre (che dopo averlo abbandonato gli mandava per il suo compleanno una banconota da cinque dollari) è espressa nel brano Father of Mine: «Dimmi come fai a dormire, con i figli che hai abbandonato e una moglie che picchiavi». Nel brano Alexakis annuncia anche l’unica rivincita possibile contro quanto ha passato: «Sono diventato un adulto, con una figlia mia. E giuro che non le farò mai conoscere il dolore che io ho dovuto provare». I figli che hanno sofferto rischiano di diventare a loro volta pessimi padri. Ma Alexakis ha deciso «invertire la tendenza», impegnandosi anche pubblicamente come testimonial di iniziative dedicate alla paternità responsabile.

Ben Harper

L’eclettismo di Ben Harper è sempre stato frutto di un’alchimia unica, scaturita in una famiglia multietnica in cui la musica era di casa. Il padre Leonard era un afro-americano con sangue Cherokee che suonava il flauto e le percussioni e portò il figlio a sentire Bob Marley quando aveva 9 anni. La madre Helen era un’ebrea cantautrice i cui genitori avevano aperto in California il negozio-museo Folk Music Center. È proprio qui che Ben crebbe, sotto l’occhio attento della madre e frequentando musicisti quali Taj Mahal, Ry Cooder e Leonard Cohen. Diventato artista di successo, Ben ha deciso di tornare alle radici e riconoscere il fondamentale ruolo della mamma nella sua formazione musicale realizzando con lei un album Childhood Home, pubblicato l’anno scorso. «Era un progetto che avevamo da anni, si potrebbe dire da una vita», ha detto Ben. L’album è composto per metà da canzoni scritte da Helen e i due hanno anche tenuto dei concerti insieme suonando con strumenti che fanno parte della famiglia da ormai tre generazioni.

Lennon & McCartney

Accomunati dal talento, ma anche dallo stesso dolore per la perdita della madre, Lennon e McCartney divennero entrambi orfani molto giovani e questo fu senza dubbio un punto comune che rese ancora più solida la loro amicizia. La mamma di Paul, Mary, era un’ostetrica che morì nel 1956 a 47 anni per un’embolia dopo un intervento chirurgico per rimuovere un tumore al seno. È lei la Mother Mary di Let It Be. John, come raccontava lui stesso, perse la madre Julia due volte. Quando aveva cinque anni andò a vivere con gli zii dopo la separazione dei genitori. A 17 anni, Julia venne uccisa da un poliziotto fuori servizio ubriaco che la investì con la macchina. A lei è dedicata la canzone Julia (che compare nel White Album), ma soprattutto la dolorosa Mother, pubblicata da Lennon nel 1970. «Tu mi hai avuto, io non ho avuto te. Ti volevo, ma non mi hai voluto», cantava John che in quel periodo stava affrontando la «terapia primaria» dello psicanalista Arthur Janov che voleva far riemergere i traumi infantili. «Il dolore più grande è non essere desiderati», disse John nel 1971.

Marvin Gaye

Due colpi di pistola, uno al cuore e uno alla spalla, misero fine alla vita di Marvin Gaye, uno dei più grandi talenti della black music il 1° aprile 1984. Il giorno dopo il cantante avrebbe compiuto 45 anni. A sparare fu suo padre Marvin Sr. Una fine tremenda per un rapporto che era sempre stato difficile. Il padre era un predicatore evangelico cresciuto tra povertà e abusi e aveva educato i figli sottoponendoli spesso a violenze e umiliazioni. Marvin Jr decise di cambiare il suo cognome da Gay a Gaye anche per distanziarsi dalla famiglia con cui si riconciliò solo quando arrivò il successo. All’inizio degli anni ’80 l’autore di What’s Going on aveva vissuto un periodo di declino: in difficoltà finanziarie e dipendente dalla cocaina si era trasferito in Belgio e aveva lasciato la sua etichetta storica, la Motown. Ma il successo commerciale gli aveva arriso ancora con il singolo Sexual Healing. Tornato a vivere negli Usa, era però sempre più prigioniero della sua dipendenza dalla cocaina, schiavo di manie ossessive e si ritrovò a vivere con i genitori. Ma i litigi e le reciproche minacce erano quotidiani. Fino al tragico giorno della morte. Il padre disse di avere agito per legittima difesa. «Se potessi riportarlo indietro lo farei. Avevo paura di lui», disse in tribunale. Fu condannato a sei anni di carcere. «Tutto nella vita di Marvin fu il frutto della relazione con il padre – ha detto il biografo Steve Turner -. Il suo bisogno di avere successo, di essere amato, la sua fuga nelle droghe, tutto è legato a quel rapporto. Non importa quello che era riuscito a creare con le sue canzoni. Tutto quello che ottenne fu solo risentimento e critiche».

Bob Marley

«È una storia che rimanda alla schiavitù. Un bianco che si prende una donna nera e la mette incinta». Bob Marley non parlò mai volentieri del padre, il capitano dell’esercito inglese Norval Marley che lavorava come sovrintendente in una piantagione giamaicana e che all’età di quasi sessant’anni intraprese una relazione con una ragazza diciannovenne chiamata Cedella Booker. I due si sposarono. Nel febbraio del 1945 nacque Robert Nesta che il mondo conoscerà come Bob. Norval ben presto tornò in patria abbandonando la famiglia e facendo perdere le sue tracce. Morì pochi anni dopo. Per Bob questo padre coloniale, assente, di cui conservava un’unica foto a cavallo, fu fonte del suo risentimento contro i bianchi e fu alla base della sua volontà di riscatto per i neri di tutto il mondo. Ma da ragazzino il futuro re del reggae venne discriminato perché visto come un «mezzo-sangue». «Non sto dalla parte dei neri o dalla parte dei bianchi – disse -. Mi definiscono un mezzo e mezzo. Io sto dalla parte di dio che mi ha creato bianco e nero e mi ha dato il talento».

Eddie Vedder

Quando i suoi genitori divorziarono, Eddie Mueller era un adolescente che frequentava la scuola superiore. La famiglia si separò. La madre, Karen Vedder, e i fratelli andarono a Chicago, Eddie scelse si rimanere dove aveva trascorso gran parte della sua vita, a San Diego con il padre Peter Mueller. Scoprì però una verità che gli era sempre stata negata: quello che pensava fosse suo papà in realtà aveva sposato sua madre due anni dopo la sua nascita. Il suo vero padre era una persona che aveva conosciuto in passato e gli era stato presentato come un amico di famiglia, Edward Severson. La notizia era arrivata troppo tardi. Edward era morto di sclerosi multipla. Eddie decise così di allontanarsi e di andare a vivere da solo, prese il cognome della madre e rivolse la sua angoscia alla musica. Anni dopo questo trauma divenne il testo di una canzone che Eddie spedì a un gruppo di Seattle, i Mother Love Bone, che cercavano un cantante dopo la morte per overdose del loro precedente frontman. Eddie si trasferì a Seattle e divenne il leader di quella band che si ribattezzò Pearl Jam. La canzone, Alive divenne il loro primo successo internazionale. Eddie era diventato un cantante. Proprio come il padre. «Avrei voluto sapere se mi amava – ha confessato in un’intervista del 2013 -. Avrei voluto avere una figura di riferimento che mi insegnasse a capire cosa vuol dire diventare adulti. Di lui mi sono rimaste le registrazioni di 4 canzoni. Le ho sentite per la prima volta solo un mese fa. Era bravo. Sono orgoglioso di lui. E se fosse ancora vivo mi piace pensare che sarebbe orgoglioso di me».

Lou Reed

La difficile relazione che Lou Reed ebbe con i genitori nel corso dell’adolescenza è ben documentata non solo dalle biografie, ma dalle stesse canzoni del rocker. In Kill Your Sons del 1974 raccontò la crudele terapia dell’elettroshock a cui fu sottoposto. Questa procedura pare gli fosse stata imposta anche per «curare» le sue tendenze omosessuali. Tuttavia lo scorso aprile, a un anno e mezzo dalla morte del fratello, la sorella Merrill ha raccontato per la prima volta un’altra versione della storia, prendendo le difese dei genitori. Non ci fu alcun tentativo di sopprimere l’omosessualità, ma solo di aiutare un ragazzo che era sempre più disadattato ed era vittima delle droghe. La terapia non venne scelta dai genitori, ma dai medici. Il padre era un burbero, ma non un violento. «Le storie che Lou stesso raccontò su mio padre erano legate a quel periodo di rabbia – ha detto la sorella -. Ma per me sono sempre sembrate delle fantasie. Non ho mai visto mio padre alzare le mani contro nessuno. Mai verso di noi, mai verso mia mamma. Mai ho visto una mancanza d’affetto nei confronti di suo figlio che ha sempre amato e di cui è sempre stato orgoglioso».