In uno degli episodi più famosi e controversi della Genesi, Abramo replica per tre volte, senza esitazione, a tre diverse chiamate, con la stessa risposta: «Eccomi». Dichiara così la sua piena disponibilità a Dio, che gli intima di sacrificare il proprio unico figlio, allo stesso Isacco, che lo interroga su quanto sta accadendo, e infine all’angelo, che gli impedisce di compiere il sacrificio.

Per tutti e tre, Abramo è presente, pronto a obbedire; ma come può Abramo «esserci» tanto per il proprio figlio quanto per chi gli chiede di ucciderlo? Come può essere così aperto verso gli altri da poterne accogliere esigenze persino contraddittorie? È quanto si domanda Jonathan Safran Foer nel suo nuovo romanzo, intitolato, con esplicito riferimento biblico, Eccomi (traduzione di Irene Abigail Piccinini, Guanda, pp. 661, euro 22,00).

Punto di partenza, il presupposto che a genitori e persone religiose «non è concesso il lusso di essere ragionevoli», poiché ogni loro comportamento è condizionato da una stessa «scommessa-tutto-o-niente. La fede». Foer indaga sull’(im)possibilità di vivere giorno per giorno l’assoluta apertura verso gli altri di Abramo: si può essere presenti come genitori e riuscire al tempo stesso a mantenere una soddisfacente vita di coppia? Si può essere insieme figli, amici, amanti, senza perdere la propria identità?

Al centro della vicenda sta una famiglia ebrea medio-borghese di Washington – madre, padre e tre figli maschi dai sei ai tredici anni – colta in un momento particolarmente critico: quattro settimane in cui una serie di eventi alcuni prevedibili altri imprevisti, dalle preparazioni per il Bar Mitzvah del figlio maggiore al ricovero del bisnonno in una casa di riposo contro la sua volontà, dal confronto con parenti in visita da Israele ai tradimenti più virtuali che effettivi di entrambi i coniugi, fa deflagrare in una crisi difficilmente sanabile un decennio di «parole sbagliate, parole mancate, silenzi imposti».

Jacob e Julia, i genitori protagonisti, arrivano a rendersi conto che «la somma di tutta la presenza», ovvero i tanti «eccomi» della vita familiare, si sono trasformati «in un’assenza». «Ti rende triste che amiamo i bambini più di quanto ci amiamo tra noi?», chiede Julia al marito, confermando come nella vita familiare sia impossibile realizzare la disponibilità assoluta di Abramo, che deriva dal situarsi oltre qualsiasi scelta e, prima ancora, oltre la stessa possibilità di scegliere.

Attraverso episodi a tratti decisamente umoristici, Foer dimostra che lo sforzo di «esserci» per gli altri, porta al «non esserci» per se stessi, alla perdita della percezione del proprio corpo – che Julia fatica a «ricordare» e del quale Sam, il suo figlio maggiore, «non sa che fare», al punto da crearsi un avatar virtuale cui delegare un’altra vita.

Questo fragile equilibrio tra realtà e scenari fittizi, già incrinato dal confronto con i cugini, che pone allo scoperto le difficoltà di relazione tra ebrei americani e israeliani, si infrange definitivamente in seguito a un tremendo terremoto in Medio Oriente che, in un perverso effetto domino di ritorsioni politiche, mette a repentaglio la stessa esistenza dello stato di Israele. G

li effetti, ora risibili ora drammatici, del rapporto tra una vita privata già fortemente compromessa e una situazione pubblica radicalizzata permettono a Foer di rielaborare i suoi temi-chiave (come il retaggio dell’Olocausto e il significato dell’essere ebrei nella società contemporanea) mostrando allo stesso tempo la notevole maturità raggiunta dalla sua scrittura, e senza ricorrere all’armamentario postmoderno che caratterizzava i suoi precedenti lavori.

Tornando alla narrativa dopo undici anni con un romanzo intitolato «Eccomi», è azzardato ipotizzare che lei cerchi di scoprirsi davanti al suo pubblico più di quanto abbia mai fatto sinora?

Non riesco a immaginare un altro motivo per scrivere un romanzo se non il desiderio di condividere qualcosa che sento profondamente. Una delle ragioni per cui ho impiegato tanto tempo nello scrivere questo libro è che non sapevo ancora cosa volessi scambiare con i lettori. In effetti, la stesura vera e propria del romanzo è durata tre o quattro anni, più o meno lo stesso tempo che ho impiegato a scrivere gli altri miei lavori, ma mi ci è voluto molto per iniziare, perché la cosa più difficile, almeno per me, non è comporre belle frasi, e neppure creare personaggi credibili o strutture accattivanti, bensì continuare per tutto il tempo a occuparmi di qualcosa a cui tengo profondamente. Questo non implica che il mio sia un romanzo autobiografico, mentre di certo è quello più personale.

Tempo fa lei ha affermato: «scrivo sempre per il bisogno di leggere qualcosa»: che tipo di libro voleva leggere quando ha iniziato a scrivere «Eccomi»?

Certamente non un libro su problemi politici o relativi alla questione ebraica: questi temi sono presenti nel romanzo, ma non costituiscono l’impulso che mi ha deciso a scriverlo, infatti, sono sempre sorpreso dalla frequenza con cui queste questioni vengono chiamate in causa quando se ne parla. Forse è inevitabile, perché il romanzo per certi aspetti è molto politico e molto ebreo. Però il libro che volevo scrivere, ovvero quel che cerco quando leggo un libro, non riguarda problemi politici, ma temi universali, come la ricerca di una casa, un luogo in cui essere completamente integrati, presenti, senza disperdersi un po’ qui e un po’ là, senza andare avanti a forza di piccole bugie, senza conformarsi a certi principi: un luogo dove la nostra identità possa trovare riposo.

Il libro, in un certo senso, tratta proprio di questo: non trovare quiete, non essere presenti, o meglio, essere presenti fisicamente, ma assenti mentalmente. Tutti desideriamo un posto in cui essere pienamente presenti, soddisfatti, in pace.

Veniamo al riferimento più immediato del suo titolo, l’«eccomi» biblico di Abramo. Per tutta la durata del suo romanzo lei sembra suggerire che l’assoluta disponibilità dimostrata da Abramo è qualcosa di impossibile, soprattutto nella vita familiare. Dobbiamo sempre scegliere: tra i figli e la persona con cui stiamo, per esempio. E la scelta è forzata: per i suoi protagonisti i figli vengono prima di tutto. Lei pensa davvero che l’essere genitori finisca per distruggere la coppia?

Be’, senza dubbio la cambia! Ma credo che nel mio libro a distruggere la coppia non siano i figli quanto qualcosa che era già in atto prima della loro nascita: il progressivo allontanarsi dei due partner, l’accrescersi della distanza tra loro con l’aumento delle incombenze domestiche, la condivisione di maggiori responsabilità e problemi. I due si conoscono sempre meglio sul piano delle abitudini, ma sono sempre di più le cose tra loro taciute, trattenute nel profondo, fino a che il desiderio stesso diventa un nemico.

Non so perché questo accada, né so quanto i lettori possano riconoscersi in questo processo: scrivo, in un certo senso, da una posizione di fede. Proprio l’altro giorno, scherzando con amico, proponevo di scrivere un manuale dal titolo Trascurate i figli e amate l’amante, perché oggi in America siamo ossessionati dai bambini, un eccesso di energia emotiva e mentale è speso per prendersi cura di loro, e naturalmente viene sottratto a qualcosa d’altro. Per pura curiosità ho chiesto a una mia amica scrittrice che sta vivendo una crisi matrimoniale: «qual è la percentuale di lavoro che dedichi al tuo matrimonio e alla tua vita privata e quella che dedichi ai tuoi libri?» e lei mi ha risposto: «forse uno a dieci, uno a venti: lavoro venti volte di più sui miei libri che sulla mia vita».

Dovremmo riflettere sul fatto che mettiamo tanta attenzione e tante energie su cose che non dovrebbero esigerne, a scapito di altre. Inoltre, stare sempre addosso ai bambini non è certo l’ideale per loro e tanto meno per gli adulti. E inoltre, trascurare il matrimonio per dedicare attenzione ai figli non è certo il miglior modo per occuparsi di loro. I bambini vogliono avere genitori felici.

Nei suoi romanzi di bambini ce ne sono tanti, ma sono sempre un po’ particolari. Oskar in «Molto forte, incredibilmente vicino» era una sorta di genietto solitario, capace di ragionamenti del tutto inusitati per un bambino della sua età. In «Eccomi», Sam è talmente diverso dai suoi coetanei che Jacob, suo padre, sospetta sia affetto dalla sindrome di Asperger, e suo fratello minore, Benjy, non è certo meno strano. Perché lei ama ritrarre bambini fuori dalla norma?

Credo, in realtà, che tutti i miei personaggi siano un po’ fuori dalla norma. Col passare del tempo scrivo in maniera sempre più realistica, ma questo non significa per me creare personaggi credibili in senso giornalistico, è la loro esperienza che deve essere autentica. Una delle cose più bizzarre della narrativa è che per creare esperienze autentiche a volte occorre allontanarsi dalla «verità». Se andassi in un parco giochi, facessi interviste a bambini di sei, dieci e tredici anni e poi le trascrivessi, avrei senza dubbio un documento realistico, ma non per questo lo sentirei come autentico. Quando scrivo cerco qualcosa che sia coerente, in questo caso, non in relazione all’infanzia in se stessa, ma all’atmosfera del libro, al modo in cui il libro cerca di coinvolgere il lettore.

«Eccomi» sovrabbonda di argomenti, quasi in ogni pagina ne affronta uno diverso. Ci sono continui malintesi tra i personaggi, le loro opinioni si sovrappongono, si contrastano, sono molto verbosi, categorici e le loro posizioni non solo sono molto forti, ma spesso incompatibili: creare questa esperienza totalizzante mi ha richiesto molto lavoro e ho dovuto, a volte, sacrificare la credibilità.

Anche gli anziani appaiono spesso nei suoi lavori: sono vecchi sopravvissuti all’Olocausto, che ne portano sulle spalle la tremenda memoria: dal nonno dell’interprete in «Ogni cosa è illuminata» fino al nonno di Jacob in «Eccomi», e a quello di Oskar in «Molto forte, incredibilmente vicino». La sua scelta di inserire tragiche figure di anziani è un ammonimento a non dimenticare? Perché – come afferma il rabbino al funerale di Isaac Bloch – con la loro scomparsa se ne andrà per sempre anche la memoria dei loro traumi?

Forse questi personaggi ritornano in me a un livello inconscio, e non per uno scopo preciso. Del resto, sono un romanziere, non un memorialista. Non scrivo per dimostrare qualcosa: il romanzo non è un codice, non ho messaggi da lanciare. In questo mio ultimo libro mi interessava piuttosto esaminare quattro generazioni di uomini, le loro differenze e incompatibilità, le caratteristiche che saltano una generazione e riappaiono nella seguente: Jacob è così diverso da suo padre, e anche da suo figlio, eppure possiamo vedere certe nevrosi, una certa tristezza, che passa da una generazione all’altra. E forse il motivo per cui nonni e nipoti di solito vanno più d’accordo dei padri con i figli è perché tra le loro generazioni c’è un nemico in comune.

Parliamo un po’ del linguaggio. In «Ogni cosa è illuminata» ciò che colpiva, prima di tutto, era la buffa lingua parlata dall’interprete; in «Molto forte, incredibilmente vicino» diversi personaggi – a cominciare dal nonno – rifiutavano di parlare; qui abbiamo Jacob che impara, da solo, in segreto, il linguaggio dei segni. Poi c’è anche un riferimento a Eliezer-Ben-Yehud che voleva una casa non per il suo popolo, ma per la sua lingua e per finire c’è l’immagine molto pregnante della «sinagoga di parole» costruita da Jacob, che ricorda il racconto di Kafka «Davanti alla legge». Che differenza stabilisce tra l’importanza che attribuisce alla parola e quella che dà alla comunicazione con gli altri?

L’importanza che attribuisco al linguaggio dipende da quanto abbiamo detto all’inizio della nostra chiacchierata, dalla necessità di condividere qualcosa che ci portiamo dentro. Pur essendo molto «parlati», i libri che ho scritto mi sembra trattino di argomenti che i personaggi faticano a esprimere.

Prendiamo Jacob: ha un sacco di segreti, passa gran parte della sua vita mentalmente altrove, non è presente nella realtà, dunque esprime l’esatto opposto dell’«eccomi» di Abramo. La sua relazione via sms con la collega, pur essendo così inquietante e distruttiva per il suo matrimonio, non ha alcun aspetto reale; inoltre, Jacob crea la sua arte di nascosto, nel sotterraneo; si interessa di luoghi dove non andrà mai, idealizza Israele. E il climax del libro arriva quando, posto di fronte a tutti questi «altrove», si trova costretto a scegliere un «qui» in cui stare. Jacob è un grande represso, uno che si tira sempre indietro, la sua crisi con Julia nasce proprio dal non dire quel che vorrebbe, nonostante non sia necessariamente doloroso. Forse sarebbe solo un po’ imbarazzante, ma lui non trova mai le parole giuste, e il momento in cui le cose andrebbero dette finisce per passare in silenzio.

Perciò, gran parte del suo rapporto con le parole avviene in segreto, nel sotterraneo, dove scrive volumi e volumi della sua «Bibbia», l’espressione artistica di un’esperienza che non sa condividere con nessuno. Questo è ciò che mi ha sempre ossessionato e si riflette nel mio processo di scrittura: cerco nei miei libri una risposta a questa ossessione.

Tuttavia, in questo romanzo non ci sono giochi di parole, sperimentalismi linguistici o contaminazioni con altri linguaggi, come accadeva nei romanzi precedenti. Forse perché non voleva distrarre i suoi lettori da questioni che le stavano più a cuore?

No, penso sia solo perché questa è la forma che ho trovato per ciò che volevo condividere. Non è stata una decisione conscia, scaturita da qualche teoria o idea critica: riflette, dal punto di vista estetico, la situazione in cui mi trovavo.

Così come in Molto forte, incredibilmente vicino non intendevo creare qualcosa di sperimentale: quella era la forma che aveva preso la mia immaginazione a quel tempo e io ho scelsi di non metterla in discussione. Si può guardare alla questione formale sia come a una serie di decisioni da prendere, sia come alla scelta di non sottoporsi a restrizioni per conformarsi a un certo modello di romanzo e alle sue aspettative.

Questa volta, non volevo avvicinarmi a un modello più tradizionale, non mi sono domandato come avrebbe dovuto apparire il romanzo, ma ho lasciato che assumesse da solo la sua forma, e non so perché sia stata quella e non un’altra.

Quando scrivo, non mi pongo domande, lascio che le immagini arrivino da sole. Ricorda l’inizio di Ogni cosa è illuminata, il mio primo libro? C’è un carro che sprofonda portando in superficie tutta una serie di oggetti e i personaggi cercano di dare un senso alle cose che emergono: scrivere è esattamente questo, lasciare che le cose vengano a galla.

In un certo senso, io mi tuffo nel profondo, poi lascio che i reperti della mia immaginazione salgano in superficie e ottengo un ritratto di chi sono, di ciò che mi sta a cuore. Così ciò che veramente è importante per me entra nei miei libri senza che io lo stabilisca a priori.