Estate 1989, per le strade di Bedford-Stuyvesant, Brooklyn, l’ccitazione è palpabile. Centinaia di giovani marciano urlando slogan e issando cartelli con immagini di leader del movimento nero, celebrità afroamericane e scritte con i nomi dei luoghi storici delle rivolte nere. Un giovane afroamericano con un cappello da basket, a capo di quella moltitudine nera, rappa invitando a combattere lo status quo per ridare tutto il potere al popolo. Pochi altri momenti nella storia della musica sono stati così dirompenti, aggressivi, galvanizzanti e, al tempo stesso, scioccanti per l’America bianca. Chuck D, leader dei Public Enemy, rappava: «Elvis per molti fu un eroe/Ma non ha mai significato un cazzo per me/Era un fottuto razzista quel bastardo/Chiaro ed esplicito/Affanculo sia lui che John Wayne/Sono nero ed orgoglioso/Sono pronto, eccitato, di più, elettrizzato/La maggior parte dei miei eroi non appaiono sui francobolli». I versi arrivavano dritti dal brano Fight the Power («Combatti il potere») il cui video, entrato nella storia dell’hip hop, era stato girato da Spike Lee. Pubblicato dai P. E. come singolo nel 1989, Lee lo aveva incluso quello stesso anno nella colonna sonora di Fa’ la cosa giusta. Nel 1990 una nuova versione sarà presente in Fear of a Black Planet, terzo album dei Public Enemy. Da sempre radicali della cultura, nel 2013 sono entrati nella Rock’n’Roll Hall of Fame insieme ad altre personalità afroamericane, quali lo stesso Spike Lee e Harry Belafonte, rivelandosi uno dei nomi simbolo della colonna sonora della ribellione giovanile, autori in particolare di una canzone che avrà sempre un posto di rilievo nell’immaginario popolare Usa e internazionale. Proprio come Fa’ la cosa giusta, il film di Spike Lee al quale è indissolubilmente legata (il regista chiese esplicitamente al gruppo di scrivere il tema del film), Fight the Power fu scritta e realizzata in un periodo di forti tensioni razziali, e cattura alla perfezione l’aspetto sia sociale, sia psicologico del conflitto in atto. Esplicitamente politico, il pezzo era aggressivo così come il rock era stato in altre epoche e aveva quel tipo di irriverenza tale da far inserire il nome del gruppo nelle liste dell’Fbi.

Fight the Power non era solo un atto di protesta, era anche un chiaro richiamo all’azione e sembrava sintetizzare al meglio l’ideologia e la rivoluzione lirica e musicale del gruppo. Quel funky così contagioso, quell’esplicito richiamo alla protesta di strada, all’esempio di lotta dei leader del movimento nero e le critiche senza compromessi all’establishment politico erano un richiamo irresistibile per tutte le minoranze etniche e non solo per loro. Alla fine degli anni Ottanta la situazione delle comunità nera era davvero preoccupante; l’accoppiata Ronald Reagan-George Bush Sr aveva smantellato buona parte dei programmi sociali scaricandoli come inutile assistenzialismo, facendo affondare ulteriormente nella povertà aree già duramente colpite dalla piaga della droga e della violenza. Il crack stava devastando i ghetti urbani. L’Aids imperversava negli Usa. I leader neri, incluso Jesse Jackson, tentarono di cavalcare il problema razziale per ottenere visibilità. La comunità artistica, in assetto da guerra sin dai giorni della presidenza reaganiana, inventò forme di critica e resistenza dure, esplicite e provocatorie.

Non a caso i Public Enemy in Rebel Without a Pause sostenevano JoAnne Chesimard alias Assata Shakur, inserita nella lista dei 10 più ricercati dall’Fbi mentre in Bring the Noise davano il loro appoggio al discusso leader della Nation of Islam, Louis Farrakhan. Nonostante il contenuto duro, provocatorio e, per questo, oggetto di critiche spietate, quelle canzoni erano popolarissime. Di più: sebbene Farrakhan e altre figure del movimento afroamericano fossero aspramente criticati nella sfera pubblica, Chuck D inseriva le loro idee nelle sue canzoni esplicitando come l’esser nero automaticamente rendesse qualsiasi individuo un nemico pubblico.

L’attitudine e l’immagine militante del gruppo portarono molti, dai giornalisti ai membri delle comunità e di organizzazioni nere, a considerare i Public Enemy come nuovi possibili leader del movimento di liberazione nero.

Spike Lee vide in Chuck D uno spirito affine, e lo considera ancora oggi «uno degli artisti con la più alta coscienza politica e sociale della mia generazione. Durante la produzione di Fa’ la cosa giusta mi venne un’idea per una canzone, e sapevo che la persona giusta a cui rivolgermi era Chuck D. Il primo demo che fecero lo rimandai indietro perché non mi soddisfaceva del tutto. Poi Chuck se ne uscì con Fight the Power…». Il film di Spike Lee denunciava le tensioni razziali che caratterizzavano New York a fine anni Ottanta così come Fight the Power criticava il sistema d’oppressione che aveva marginalizzato per oltre 400 anni la popolazione nera.

Fu su questo sfondo che Spike Lee girò il video promozionale per Fight the Power. La canzone era un’arringa contro la società Usa, i media, il capitalismo e il fallimento dell’integrazione che aveva avuto come unico risultato quello di esacerbare il razzismo. Il concetto del video era una ricostruzione della marcia su Washington del 1963, culminata nel celebre discorso «I Have a Dream» di Martin Luther King, ma questa volta con i Public Enemy in primo piano. La canzone, il clima che si respirava all’epoca delle riprese, le celebrità che vi parteciparono e il simbolismo evocato dalle immagine galvanizzarono l’attenzione della popolazione nera di New York, che accorse in massa per partecipare alle riprese.

Prima sulle emittenti urbane passarono gli spot promozionali dell’evento, quindi il giorno prefissato per il corteo furono distribuite ai giovani presenti le magliette Fight the Power insieme ai cartelli con le immagini di Angela Davis, Jesse Jackson, Paul Roberston, Frederick Douglas, Medgar Evers, Thurgood Marshall, Marcus Garvey e Mohammad Alì, con il logo dei Public Enemy e con i nomi dei luoghi simbolo delle lotte e delle rivolte negli Usa. Poi il corteo sfilò per oltre un chilometro da Eastern Parkway fino al quartiere dove era stata girata la pellicola; qui il gruppo eseguì il pezzo su un palco caratterizzato dai colori New Afrikan rosso, nero e verde e sormontato da un’enorme foto di Malcolm X mentre la folla ballava e faceva smorfie a uso e consumo delle cineprese. Fu al tempo stesso una dimostrazione di strada, una marcia dell’orgoglio nero e un concerto rap, come se la National Black Political Assembly del 1972 si fosse trasfigurata in un block party di Brooklyn.

Lee inserì in apertura del videoclip le immagini storiche della Marcia su Washington del 1963, alle quali seguiva l’entrata in scena di Chuck D: «Giovane America nera, strapperemo ciò di cui abbiamo bisogno, non finirà come con le pagliacciate del 1963». Poi partiva il pezzo mentre Chuck D proclamava: «1989! Il numero di un’altra estate», fissando per sempre quel momento nella storia. Era solo un cortometraggio di sette minuti ideato per promuovere un disco, un gruppo, un marchio, eppure quel videoclip parve cementare la leadership culturale dei Public Enemy. Per il video di Fight the Power Lee gettò Chuck D nelle strade accanto alle immagini dei grandi eroi del potere nero, come un nuovo simbolo black. Però Chuck D non era tanto disposto a essere considerato il Malcolm X o il Paul Roberston della sua generazione. Lui voleva produrre arte rivoluzionaria, non guidare le masse. Peccato che dopo quel disco non fosse più a lui decidere. I Public Enemy erano passati, come afferma Bill Stephney, produttore e guru dei Public Enemy «da gruppo rap che suona al Latin Quarters con Biz e Shan, Run e Whodini a salvatori della comunità nera».