Torna al Teatro alla Scala di Milano Fidelio di Ludwig van Beethoven, nello stesso allestimento della regista Deborah Warner che ha aperto la stagione nel 2014.
Per spiegare la forza che quest’opera ancora oggi possiede e perché la prima rappresentazione sia stata dedicata a Vittore Veneziani e a Erich Kleiber nell’ottantesimo anniversario delle leggi raziali, serviamoci delle parole del grandissimo Wilhem Furtwängler a tre anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: «Certamente, Fidelio non è un’opera nel senso usuale, né Beethoven è un musicista per il teatro o un drammaturgo. È qualcosa di più, un musicista completo, e oltre a questo, un santo e un visionario. Ciò che ci disturba non è un effetto materiale, né il fatto dell’ ’imprigionamento’; qualsiasi film potrebbe ottenere lo stesso effetto. No, è la musica, è Beethoven stesso. È la ’nostalgia della libertà’ che sente, o meglio, che ci fa sentire; questo ci commuove fino alle lacrime. Il suo Fidelio ha più della Messa che dell’Opera; i sentimenti che esprime provengono dalla sfera del sacro e predicano una ’religione dell’umanità’ che non abbiamo mai trovato così bella o necessaria come oggi, dopo tutto quello che abbiamo vissuto».

A dirigere l’orchestra è Myung-Whun Chung, che si avventura con sicurezza ed entusiasmo nella partitura solenne, tenera, malinconica, eroica, armonicamente inaudita per i tempi in cui è stata composta, fin dalla gigantesca ouverture «Leonore n. 3», riuscendo nell’impresa non facile di animare un universo tanto drammaturgicamente povero quanto musicalmente ricco: i tempi sono talvolta un po’ troppo dilatati, i fiati un po’ troppo forti, ma la tenuta d’insieme è vigorosa, lussureggiante, appassionante soprattutto nelle parentesi liriche e nei numeri d’insieme, dove le voci, interagendo, danno vita a quella dimensione di umanità sottolineata da Furtwängler.

La regista, che alla Scala si è fatta apprezzare nel 2011 con un bellissimo allestimento di Death in Venice di Britten, a partire dalle scene di Chloe Obolensky e dalle luci di Jean Kalman, ha risolto i tratti un po’ schematici della pièce à sauvetage in voga all’inizio dell’Ottocento (in cui il/la protagonista deve essere liberato/a dalla prigionia) e gli stalli del singspiel (che alterna parlato e canto), enfatizzando il messaggio anti-tirannico e libertario del libretto attraverso i contrasti oscurità-luce.

In questo allestimento la prigione di stato spagnola diventa una vecchia struttura industriale abbandonata: pareti altissime di cemento a vista, bidoni, vecchi macchinari, tavolini e scartoffie, lenzuola stese, un asse da stiro. Unica pecca registica: il gelo degli amanti nella scena dell’agnizione. A parte le voci di Stephen Milling (Rocco) e Luca Pisaroni (Don Pizzarro), quelle di Ricarda Merbeth (Leonore/Fidelio), Eva Liebau (Marzelline), Martin Piskorski (Jaquino), Martin Gantner (Don Fernando) e Stuart Skelton (Florestan) stentano a superare la prova volumetrica del teatro.
Repliche fino al 7 luglio