Sono passati 52 anni dalla sua morte, ma ogni mattina all’alzabandiera i ragazzi delle scuole primarie cubane gridano «saremo come il Che». Ernesto Guevara è ricordato con molto affetto, ma anche come una sorta di mito, quello del «Guerrigliero eroico» ucciso mentre combatteva per liberare l’America latina dall’imperialismo Usa.

«Il fervore suscitato dalle sue azioni e dal suo esempio prevale sulla conoscenza delle sue idee», sostiene la professoressa Anayansi Castellón, studiosa delle opere del Che Guevara. Su questo interrogo Aurelio Alonso, sociologo, saggista e vicedirettore della rivista Casa de las Américas.

Insomma, il Che un’eroe di marmo?

No. Almeno non del tutto. Una recente inchiesta ha dimostrato che, almeno a livello universitario, buona parte degli studenti conosce la «Lettera a Fidel» che il Che scrisse quando lasciò Cuba per le sue missioni internazionaliste. Come pure il libro sulla guerriglia e il famoso Messaggio alla rivista Tricontinental del 1967 con il quale il Che lanciava la parola d’ordine «Creare due, tre…molti Vietnam» contro l’imperialismo.

Guevara però è stato ben più che un teorico della guerriglia?

È stato un pensatore marxista critico. Lo dimostrano i sette volumi de «El Che en la revolución cubana» che raccolgono i suoi scritti – spesso in una miriade di quaderni- e discorsi pubblicati dal Centro studi a lui dedicato.

Il saggio «Il socialismo e l’uomo in Cuba» è una sorta di suo manifesto politico.

L’essere umano era al centro della sua concezione della transizione al socialismo. E riteneva che il fine ultimo della Rivoluzione fosse liberare l’uomo dalla sua alienazione. Affermava che il burocratismo, l’inerzia del reale, non porre come obiettivo centrale la liberazione dell’uomo avrebbe portato al fallimento del modello sovietico esportato nei paesi socialisti dellEst Europa.

Ma i suoi allarmi furono essenzialmente inascoltati…

A Cuba verso la metà degli anni Sessanta si stava inesorabilmente imponendo non tanto un modello sovietico in sostanza stalinista, ma una sorta di istituzionalità di stampo sovietico che avanzava sulla scia prima degli aiuti materiali indispensabili per la sopravvivenza economica dell’isola e poi sull’influenza dei tecnici e consiglieri sovietici e anche dei giovani cubani che andavano a formarsi nell’Urss.

Ma è errato pensare che Fidel accettasse passivamente o addirittura fosse un esecutore della volontà sovietica. Lo dimostrò dopo la partenza del Che prima dando vita alla ’Lotta contro il burocratismo’, (contro la burocrazia come casta parassitaria) poi nel 1968 con l’eliminazione della cosiddetta «microfazione» filosovietica di Annibal Escalante.

Alonso in sostanza contesta la tesi, accettata anche da una parte della sinistra europea, che il Che abbandonò Cuba a causa di divergenze sostanziali con Fidel Castro, il primo critico del modello stalinista sovietico e il lider maximo obbligato ad agire come un statista e a tener conto delle richieste di Mosca. In particolare Alonso contesta – con l’affermazione che si tratta di «giudizi schematici» – che Guevara avrebbe contrapposto, nella costruzione dell’uomo nuovo e della nuova società, gli incentivi morali a quelli materiali, mentre Fidel avrebbe alla fine privilegiato questi ultimi. Solo che quando si è trovato in difficoltà sia per la durezza dell’embargo sia per sperimentazioni economiche a volta imprudenti

«Fidel – ci dice Alonso – non ha potuto impedire la riscossa di una burocrazia modellata su quella sovietica».