Molti a Cuba, come pure in altri paesi, specie in America latina, mai avrebbero pensato di vivere senza la figura carismatica di Fidel , leader della «prima rivoluzione socialista in America» a sole 90 miglia dalla principale potenza capitalista-anticomunista del mondo contemporaneo. Oggi, a un anno dalla sua scomparsa – che per molti nell’isola è stata come la perdita di un familiare – continuiamo a interrogarci sul futuro del socialismo a Cuba senza Fidel.

I tempi infatti sono difficili. Un anno fa, era in corso il processo di distensione con gli Usa, simbolizzato dallo sventolare delle bandiere nelle rispettive sedi diplomatiche: a Washington quella cubana, sul Malecon habanero quella a stelle e striscie. L’aumento esponenziale dei visitatori – anche se ufficialmente non turisti – statunitensi, come pure i primi investimenti diretti, davano concretezza a questo processo. Il processo di riforme – ufficialmente di «modernizzazione» – del socialismo cubano procedevano, «lentamente, ma senza interruzioni», come raccomanda il presidente Raúl Castro.

Oggi subiamo gli effetti distruttivi del tremendo uragano Irma e soprattutto quelli della «tempesta Tump», di un presidente degli Usa impegnato non solo a smontare quella distensione che Obama aveva iniziato, ma a inviare segnali minacciosi a tutti i governi che si proclamano socialisti. Ritorna la politica yankee del «big stick», la minaccia di un intervento militare. Contro Cuba si aggiunge la recrudescenza di un blocco economico, commerciale e finanziario unilaterale che Obama aveva definito «inutile e controproducente». Per noi cubani, che lo subiamo da più di cinquant’anni, è semplicemente «criminale».

Questa politica minacciosa avviene quando il governo socialista di Cuba deve affrontare grandi sfide, assicurare una crescita economica che permetta l’aumento dei salari , l’unificazione delle due monete correnti, attrarre investimenti stranieri e iniziare anche un processo di riforme politiche, richieste soprattutto dai giovani. La politica aggressiva del presidente magnate nordamericano rende oggettivamente più difficile raggiungere questi obiettivi, perché ha indotto, di nuovo, nel vertice poltiico cubano la mentalità da «fortezza assediata». La priorià ritorna a essere la politica «di resistenza all’imperialismo» Usa.

In questo quadro si ripetono i discorsi di Fidel, le sue idee in vari campi, dalla politica, all’economia e all’ecologia. Abbondano i titoli nei mass media cubani come «Fidel continua a richiamare le masse» (Trabajadores, 20 novembre). Non vi è dubbio che Fidel sia stato un gigante capace di cambiare il volto dell’America latina, non solo Cuba. Ma preoccupa il silenzio dell’ attuale leadership, a parte, appunto, il riferimento a Fidel. Preoccupa perché la crisi economica morde e fa sanguinare, perché i giovani cubani, come in tutto il mondo, subiscono l’egemonia culturale imperiale basata sul consumismo, perché la richiesta di riforme economiche, sociali e anche politiche viene da tutta la società cubana.

Come dicevamo all’inizio, ci interroghiamo sul futuro del socialismo senza Fidel.