L’impegno per la verità sull’uccisione del figlio Giulio l’aveva promessa alla famiglia Regeni poco dopo l’insediamento alla presidenza della Camera. Ieri Roberto Fico ha portato quella richiesta al cuore del potere egiziano, prima in parlamento e poi al cospetto del presidente golpista al-Sisi.

La differenza con chi lo ha preceduto (dal 19 luglio al 29 agosto, i ministri Salvini, Moavero e Di Maio hanno fatto la spola con Il Cairo senza mettere in dubbio i rapporti bilaterali) è significativa: Giulio Regeni, dice Fico a margine dell’incontro, è stato il solo punto discusso. «Ho detto che Giulio Regeni è come se fosse morto per la seconda volta perché ci sono stati dei depistaggi», riporta il presidente della Camera.

Parole che finora dalla bocca delle autorità italiane non erano uscite e che costringono al Sisi sulla difensiva: stavolta, invece di «rubare» Giulio a egiziani e italiani («Regeni è uno di noi», la frase che Di Maio riportò dopo la sua visita e che scandalizzò tutti quelli che denunciano la sorte di migliaia di persone passate per le stesse atroci sofferenze del ricercatore), il presidente egiziano, in una nota diffusa ieri, dice di «aver dato istruzioni per eliminare ogni ostacolo alle inchieste in corso al fine di risolvere il caso, giungere ai criminali e consegnarli alla giustizia». Ma non fornisce dettagli in merito.

In assenza di reali pressioni, economiche e diplomatiche, nessuno si aspetta che lo faccia davvero, visto il più che probabile coinvolgimento dello Stato nella scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio, ma quell’impegno a parole ha il sapore di un’ammissione, se non altro per i palesi insabbiamenti compiuti fin dal 3 febbraio 2016, quando il corpo del giovane fu trovato seminudo e massacrato in un fosso sull’autostrada Il Cairo-Alessandria.

«Sono venuto qui perché siamo a un punto di stallo – ha aggiunto Fico – Adesso servono i fatti, serve una soluzione. Dopo due anni e mezzo dobbiamo arrivare a un processo. Senza questo passo in avanti è chiaro che anche i rapporti tra i parlamenti sono molto complicati. Senza passi avanti seri e sostanziali in un processo in cui si arrivi a una verità definitiva per prendere gli uccisori di Regeni e il sistema che si muoveva dietro gli esecutori materiali, i rapporti sono sempre complicati, tesi».

Il sistema dietro gli esecutori materiali è quanto denunciano da anni gli attivisti egiziani, prime vittime di una repressione istituzionalizzata. È qui che il capo di Montecitorio segna il cambio di passo: Regeni non è un caso isolato di sparizione, tortura e morte in custodia.

Da cui l’importante appello – che i rappresentanti del governo gialloverde non hanno sollevato – al rilascio di Amal Fathy, attivista egiziana e moglie di Mohammed Lotfy, consulente dei Regeni, arrestata a maggio e da allora vittima del noto sistema di rinvio delle udienze e estensione continua della detenzione cautelare (l’ultima volta il 12 settembre).

Al rientro a Roma, Fico lo ribadisce su Facebook: «Ad al Sisi ho anche ricordato quanto fosse ampia la rete in cui è rimasto inghiottito Giulio Regeni, una rete che è andata avanti anche dopo la sua morte con una serie di depistaggi».

La presidenza della Camera non ha il potere concreto del governo, ma ha peso politico e ieri ha dato voce alla società civile che chiede, inascoltata, che si interrompano i rapporti con l’Egitto. Perché, nel frattempo, i tempi si allungano e il regime ne esce rassicurato, legittimato.

Al Sisi, da parte sua, ha recitato l’identico copione di sempre: il presidente, continua Fico, ha «compreso l’importanza per l’Italia di arrivare a una verità». Lo dice da due anni e mezzo e nulla è stato archiviato. Ora si attende il nuovo incontro tra procure, generale egiziana e romana, «a breve, magari a ottobre». Sul tavolo ci sono i «buchi» nei video consegnati al team dei procuratori Pignatone e Colaiocco: oltre al mancato recupero del 95% del materiale registrato dalle telecamere di sicurezza della metro del Cairo, la procura di Roma ha parlato di «buchi», voluti, su cui indagare.

Intanto, ieri la compagnia egiziana Gastec firmava con Eni un accordo, dopo i tanti già siglati dal colosso italiano nel paese nordafricano, per nuove stazioni di rifornimento di combustibile e gas naturale.