I piani del AD Fiat dei due mondi e delle due aziende sono sempre molto enfatici e molto comunicativi. Le slide sono belle, spesso hanno ottime fotografie e/o richiami artistici, sono curate le colonne sonore e scelte le citazioni. Gli investitori/spettatori sono sottoposti ad autentiche maratone l’altro ieri le illustrazioni dei piani per società e marchi sono durate più di 11 ore. Poi però questi piani si inabissano nella quotidianità della gestione d’impresa e si scompongono nella realtà del mercato e della crisi.

E allora gli 8 piani per il rilancio della Fiat e del gruppo presentati prima dell’ultimo meeting di Detroit, dal 2004 ad oggi non raggiungono mai gli obbiettivi tranne forse il primo piano Italiano che evitò il fallimento tecnico dell’allora impresa nazionale.

Tutti gli altri piani hanno visto un rinvio nei tempi dei prodotti, uno spostamento dei prodotti stessi e la scomparsa di altri. Con clamorose smentite come l’auto-eliminazione del piano Fabbrica Italia annunciato nell’aprile del 2010 ed eliminato dall’Ad nel settembre del 2012 dopo aver diviso lavoratori e sindacato su un piano che prevedeva di produrre entro il 2014 un milione e seicentocinquantamila veicoli in Italia: nel 2013 le auto prodotte nel nostro paese sono meno di 400.000. Per non parlare del proposito annunciato nel 2010 di produrre e vendere 500.000 Alfa entro il 2014; obiettivi ridotti negli anni e piani successivi prima a 400.000 (2011) e poi a più di 300.000 (2012) sempre entro il 2014. Nel 2013 le Alfa vendute risultano circa 74.000. Nel nono piano, il primo della nuova FCA si ritorna all’obiettivo delle 400.000 vetture ma per il 2018.

Oggi si focalizza sull’Alfa in Italia, investendo 5 miliardi e questo avrebbe sicuramente un senso se si è in grado di rilanciarla valorizzandone il marchio e l’italianità. Si capisce che non è stato fatto finora perché gli stabilimenti italiani e i loro potenziali prodotti sono stati sacrificati e subordinati alle necessità dell’acquisto e degli impegni presi con l’Amministrazione americana e i sindacati Usa, ma utilizzando in Italia abbondantemente quegli ammortizzatori sociali (le casse integrazioni ordinarie e straordinarie) che sono direttamente o indirettamente pagate dai lavoratori, come ha dimostrato un’inchiesta del Sole 24 ore.

[do action=”citazione”]Solo in Italia, dal 2004 al 2014 la Fiat di Marchionne ha risparmiato 2 miliardi di euro di salari per la cig[/do]

Dal 2004 al 2014, la Fiat guidata da Sergio Marchionne beneficerà di quasi 2 miliardi di euro di risparmi lordi sul lavoro (1,7 al netto) grazie al ricorso massiccio alla cassa integrazione negli stabilimenti italiani. Dal dal punto di vista economico, per l’azienda è stato meglio così che chiudere fabbriche, cosa più volte minacciata. Perché con la crisi dell’auto che si è aggravata, i minori oneri hanno toccato fino ai 200 milioni annui. Il periodo in esame va dal 2004, anno in cui Marchionne ha assunto l’incarico a Torino, al 2014 quando dovrebbe finire la Cigs a Melfi. Insomma si potrebbe sostenere che due stabilimenti su 4 sono stati tenuti aperti dai lavoratori.

La borsa non ha creduto al piano e non basta la giustificazione della pessima trimestrale gravata dagli oneri degli impegni per Chrysler, comincia a vacillare anche sui mercati la credibilità di un impresa che ha un forte debito che convive con un’alta liquidità e si propone enormi investimenti. Si sente la mancanza di un accordo soprattutto in l’Italia, unico paese dove Fiat-Chrysler opera e non ha intese.

E il governo dovrebbe passare dal tifo per l’ultimo piano, cosa a cui non ha resistito neanche il ministro Poletti, al chiedere ed ottenere impegni verificabili e vincolanti per l’Italia e i suoi lavoratori. Questo sì sarebbe cambiare verso, rompendo la solitudine dei lavoratori senza dimenticare le lavoratrici e i lavoratori di Termini Imerese e Irisbus senza soluzioni e licenziati dalla Fiat. Perché si può essere invitati alle convention del ultima Fiat Usa come ospiti stranieri, si può applaudire ma non si può fare un accordo perché l’azienda vuole le mani libere in Italia: E i lavoratori, soprattutto di Cassino e Mirafiori, aspetteranno il 2018 per rientrare al lavoro quando a quelli di Mirafiori era stato detto, dopo un referendum non libero e combattuto, che entro il 2014 sarebbero rientrati tutti. Senza contrattazione, rappresentanza e voto libero delle lavoratrici e dei lavoratori meglio se garantito da una legge, non si difende né l’industria per l’Italia, né il futuro di un lavoro certo e libero.

P.S Il testo del decreto Poletti cambiato al Senato da Sacconi, ministro «ombra» di Renzi, svela che mentre si liberalizzano i contratti precari si sostituisce il diritto soggettivo al posto di lavoro, se l’impresa viola la legge, con una multa che pagheranno le aziende e andrà allo stato: neanche come indennizzo ai lavoratori. Addirittura illiberali. Altro che sinistra.