La storia del quadro è qualcosa di diverso dalla storia dell’arte. Il quadro è un genere a sé stante che nel passato ha condiviso con altri prodotti della pittura solamente l’artefice: i pittori si occupavano infatti di molte cose, per esempio dipingevano su muro, sulle pagine dei libri, producevano cartoni per arazzi. La storia raccontata da Hans Belting in Specchio del mondo L’invenzione del quadro nell’arte fiamminga (Carocci editore, pp. 230, euro 23,00), inizia quando la pittura, nelle Fiandre, si comincia a chiamare schilderije, da schild, scudo, a significare quanto importante fosse allora la pratica di dipingere stemmi nel complesso delle attività dei pittori, e arriva a individuare le tappe immediatamente successive in cui il pannello dipinto subisce una vera e propria reinvenzione.
Il testo che compone il libro è apparso per la prima volta nel 1994, all’interno di una monumentale storia della pittura nei Paesi Bassi scritta da Belting e Christiane Kruse. Pubblicato autonomamente è diventato, appunto, Spiegel der Welt, Specchio del mondo. La seconda edizione tedesca, aggiornata con ulteriori ricerche, è del 2010: da qui viene l’attenta traduzione italiana di Marco Jacobsson revisionata da Anna Maria Lossi.
Freedberg e Stoichita
Il volume affronta un argomento che impegna Belting almeno da Il culto delle immagini, un libro uscito nel 1990, quasi in contemporanea con The Power of Images di David Freedberg e mentre è in lavorazione L’instauration du tableau di Victor Stoichita. Con approcci e risultati diversi, ma accresciuti da reciproci scambi, i tre saggi hanno aperto un profondo dibattito sui significati della raffigurazione artistica che ha trovato da subito dei nessi con la contemporaneità.
Specchio del mondo continua idealmente su questi presupposti, andando alla radice dell’odierno concetto di arte attraverso l’esempio della pittura fiamminga. Belting affronta la ricerca con gli strumenti dello storico dell’arte, senza mai derogare a un impianto saldamente cronologico, in quindici intensi capitoli e con una sceltissima selezione di esempi e immagini (tutte a colori nell’edizione italiana).
Secondo Belting la preistoria del quadro è in seno alle corti tra orafi, miniatori e decoratori di stemmi. Alla ricerca di una propria autonomia, il quadro imita quindi inizialmente le pagine del libro miniato o l’oreficeria, assimilandone le forme.
Una prima versione compiuta del quadro è nel ritratto borghese. Perché il borghese, a differenza del nobile, non è parte di una genealogia e il suo valore è espresso dalla sua individualità e dalla funzione sociale che si è conquistato. Entrambe sono descritte minuziosamente nello spazio del dipinto, che sta assumendo l’assetto definitivo diventando una «finestra aperta» sul mondo visibile, in Italia – la definizione è di Leon Battista Alberti – e nelle Fiandre in particolare. Il ritratto è anche una certificazione dell’esistenza dell’individuo effigiato. Il suo corpo è riprodotto in uno spazio figurativo che verrà dotato di luce, quindi di atmosfera, mentre la sua anima sarà percepibile sulla soglia fra interno ed esterno, cioè attraverso quella finestra per lo spirito che, secondo una formulazione tipica del tardo Medioevo, è lo sguardo. Così è nelle pupille dei soggetti, dove appare spesso il riflesso di una finestra, che questa doppia natura, fisica e immateriale, si esprime. Oppure lo sguardo rimane basso, o come concentrato su un pensiero: è il caso, per esempio, del cancelliere Nicolas Rolin ritratto da Jan van Eyck in una celebre tavola del Louvre. Rolin distoglie l’attenzione dal libro d’ore che accompagna la sua preghiera per visualizzare ciò che vi ha letto. Quando la Madonna gli appare, Rolin non la osserva con la vista terrena, ma con gli occhi dell’anima. La visione avviene in una camera particolareggiata fin nei dettagli, ma immaginaria, in cui il rapporto tra interno ed esterno è sottolineato dal porticato aperto sullo sfondo. L’anima, come si legge in un testo del mistico coevo Enrico di Langestein, abita in una «stanza nascosta» e guarda il mondo «dalle finestre».
Realtà duplicata
Lo spazio interno simbolico è quindi costruito con elementi reali duplicati nel quadro come in uno specchio: lì, nella stanza dello spirito, si è sviluppata l’immaginazione religiosa del cancelliere. Dietro le arcate c’è un giardino cinto da un muro merlato da cui due uomini guardano un paesaggio incantato che sembra abbracciare l’unità del creato, con persone impegnate in attività mondane, mentre un pavone fa la ruota, un altro cammina per il giardino e tutti gli infiniti, minuscoli elementi sul quale il pittore ha sostato con gusto definiscono e raccontano un mondo dove tutto ciò che è visibile ha la medesima importanza; intanto all’interno, nella smorzata chiarezza della stanza, Rolin sogna e il tempo sembra essersi fermato.
Nel libro Belting procede intrecciando testimonianze letterarie, documentarie e figurative; alcune pagine sono un corpo a corpo con opere nodali come I coniugi Arnolfini della National Gallery di Londra, uno dei quadri più celebri di sempre, un’opera in cui van Eyck propone un’altra sintesi tra individuo e mondo. Se l’ambito in cui doveva muoversi il cancelliere Rolin era il ducato di Borgogna che il politico amministrava per conto del duca, riprodotto metaforicamente in quel paesaggio a volo d’uccello sullo sfondo del quadro del Louvre, per i due sposi lucchesi lo spazio in cui si consumava il loro rapporto era la camera da letto. L’ambiente è ricostruito al di là della cornice, inaccessibile. Il pittore lo ha siglato con una formula quasi notarile: «Jan van Eyck è stato qui». Poco sotto, riflessi nello specchio concavo, appaiono due testimoni, idealmente posti al di qua della cornice, come se il momento raffigurato fosse l’essenza stessa dell’atto giuridico del matrimonio. La lettura di Belting spinge in questo senso e tutto sembra tornare: dalla composizione stessa della stanza ai gesti, le pose, gli oggetti. L’invenzione diventa immediatamente celebre tra i pittori contemporanei e in breve il quadro perde la sua originale connotazione privata: finirà in possesso degli Asburgo, per entrare poi nella collezione reale di Madrid. Velázquez ne farà Las Meninas.
Lo spazio in cui ambientare l’azione sostituì i vecchi fondo oro negli anni venti del Quattrocento, complicando enormemente l’invenzione figurativa. Questo cambiamento radicale avvenne nell’atelier di Robert Campin a Tournai. Ancora una volta, Belting individua dietro un mutamento figurativo la spinta della classe sociale emergente: la pittura di Campin, come nel Trittico di Mérode del Met, è un concerto di devozione laica, perciò gli ambienti ricostruiti nei dipinti assecondano l’immaginario del committente borghese. Insomma, in queste opere dove la Vergine siede davanti al focolare della cucina e accoglie l’angelo annunciante tra masserizie consunte e pentoloni di minestra, i borghesi vedevano rispecchiata la loro esistenza quotidiana.
Qualche decennio più tardi nel quadro si fusero apparenza, scena e miracolo, conducendo l’osservatore al di là della superficie del mondo sensibile. La pittura diventava specchio del sé. Oltre a catturare l’ordine del mondo, si era trasformata in un mezzo per esplorare il segreto dell’animo umano. Belting segue, in questo senso, la parabola dell’enigmatico pittore di Gand Hugo van der Goes. Le connessioni tra l’artista e il teatro che emergono in queste pagine, il suo «slancio cinematografico», forse spiegano la vecchia comparazione di Bernard Berenson tra van der Goes e Caravaggio.
Bosch, inquietudine
Qualche inquietudine emerge nella chiusura del libro, nelle pagine dedicate a Hieronymus Bosch. Con il crollo delle certezze della fede il pittore, ormai consapevole delle proprie possibilità, utilizza un ventaglio formale simile a quello del poeta per raccontare un mondo fatto di miserie irrimediabili. La libertà di dire di sé, forzando le regole stesse del linguaggio con la sua fantasia, è l’unica sostanza che compone le sue opere. Da lì a Calvino, che bandirà la pittura dal campo della religione relegandola a quello dell’arte ornamentale, il passo è breve.