«Se questa settimana non verranno presi provvedimenti seri non saremo più in grado di spezzare la catena del contagio ed entro 15 giorni dovremo imporre un lockdown totale». L’allarme lanciato domenica dal professor Eli Waxman, capo del comitato di esperti del Consiglio di sicurezza nazionale per la lotta al coronavirus, ha avuto l’effetto sperato di scuotere il governo israeliano. «Siamo ad un passo dal lockdown», ha avvertito ieri Netanyahu, annunciando poi la chiusura immediata di piscine, bar, palestre, sale per eventi e ogni luogo di spettacolo. Il divieto delle riunioni pubbliche con più di venti persone. I ristoranti rimangono aperti ma con un massimo di 20 clienti all’interno e 30 all’esterno. A bordo degli autobus non potranno esserci più di 20 passeggeri. Il 30 % degli impiegati pubblici dovrà lavorare a casa. Chi non porterà la mascherina in pubblico, sui mezzi di trasporto e nei luoghi di lavoro sarà multato (500 shekel, circa 150 dollari). Le restrizioni avrebbero dovuto essere ferree anche nei luoghi di preghiera ma il ministro dell’interno Aryeh Deri, del partito ultraortodosso Shas, si è impuntato ottenendo di lasciare aperte le sinagoghe con un massimo di 19 fedeli. Rimangono aperti anche i seminari religiosi perché un altro partito ultraortodosso, Torah unita nel giudaismo, ha minacciato l’uscita dal governo.

 

Provvedimenti che non spengono le polemiche che investono il governo. Nato in primavera, ufficialmente per combattere la diffusione del contagio, il nuovo esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu ha pensato soprattutto al piano di annessione di porzioni di Cisgiordania ed invece è rimasto a guardare la risalita  dei nuovi casi positivi – a fine aprile si contavano sulle dita di una mano i nuovi contagi giornalieri, invece all’inizio di luglio si sono toccate punte di oltre mille (in totale sono oltre 30mila) – pur di proteggere l’economia. Ora corre ai ripari incalzato da scenari catastrofici e dal rischio concreto che gli ospedali possano andare in tilt. I ricoveri ospedalieri sono aumentati del 13% in un paio di giorni, decine di persone sono in gravi condizioni, non poche delle quali hanno bisogno della respirazione assistita. I decessi sono stati 332.

 

Tra le cause principali di questa seconda forte ondata c’è sicuramente l’atteggiamento della popolazione israeliana. In larga parte ha dimenticato in fretta la pandemia e, illusa dalla contenuta pericolosità della prima ondata del virus, non ha più osservato il distanziamento sociale, le mascherine sono scomparse e la movida è ripresa massiccia e priva di comportamenti adeguati al pericolo. Ma le colpe principali sono attribuite al governo. Per Gabi Barbash, ex direttore del ministero della sanità, sono stati tre gli errori più gravi commessi da Netanyahu e i suoi ministri: passività nei confronti degli assembramenti; mancato sviluppo di test rapidi per l’accertamento e la diffusione del contagio; riapertura a maggio delle scuole senza un protocollo di sicurezza certo.

 

Punta l’indice contro Israele anche il governo palestinese. Il premier Mohammed Shtayyeh vuole la chiusura dei transiti tra Israele e Cisgiordania. A suo dire la mancanza di controlli sanitari sulle decine di migliaia di pendolari palestinesi è la causa «della nuova risalita dei casi di coronavirus nei Territori occupati», inclusa Gerusalemme Est, dove i positivi in pochi giorni sono passati da poche centinaia e 5 decessi (tra marzo e aprile) agli attuali 4.786 e 21 morti. Lo stesso Shtayyeh ha però riferito che l’82% dei nuovi casi in realtà ha contratto il virus durante matrimoni o funerali. La Cisgiordania completa oggi cinque giorni di lockdown dichiarato dal governo.