Un’ eco sorda e cadenzata accoglie il lettore che sfoglia le prime pagine di Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane (Donzelli, traduzione di Bianca Lazzaro, pp. XXIV-330, euro 30,00): viene dal rotolare del calesse di Giuseppe Pitrè, medico-etnografo siciliano che ogni giorno percorreva sentieri sassosi tra borghi rurali e quartieri della Palermo ottocentesca per assistere i suoi pazienti. Gente del popolo, da cui apprese la memoria e il sapere radicati nel patrimonio culturale della tradizione folklorica siciliana. Così, i pazienti di Pitrè, testimoni dell’immaginario dell’isola, diventarono assoluti protagonisti del suo incredibile e pionieristico lavoro di raccolta.

Pitrè era un instancabile ascoltatore: delle voci che narrano fiabe, leggende e proverbi, intonando canti e declamando poesie, e delle chiacchiere sull’uscio che tramandavano antiche credenze circa magici medicamenti naturali per ogni malattia, ripassando il calendario di ricorrenze, feste e fiere. Visitava, curava, dava consigli e poi scriveva appunti rigorosi su piccoli quaderni in cui registrava quanto aveva appena udito e che si riprometteva di riascoltare. Saliva sul suo calesse – «il mio studio viaggiante» lo chiamava – e si immergeva nel mestiere dello studioso appassionato del folklore della sua terra: annotava l’atto affabulante della narratrice o del narratore orale e lo faceva con la perizia, la profondità e il rispetto per il testo che si addicono al filologo, aggiungendo l’attenzione speciale che alla fonte orale riserva la ricerca etnografica. Non intendeva smarrire, infatti, l’intensità espressiva e comunicativa che abita da sempre nell’efficacia della lingua siciliana, né la corporeità della narrazione che, congiunta a gesti densi di vocazione attorale, a sguardi che ammiccano al non detto svelando segrete allusioni, rende visibile la potenza immaginifica della storia detta «a voce».

Connotate da uno spessore narrativo unico, le raccolte che Giuseppe Pitrè ha compilato nel corso della sua insaziabile ricerca, lunga una vita, sono confluiti in 25 volumi della «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane» documentando una impresa iniziata intorno al 1870 e conclusa con la morte, nel 1916, di cui ricorre il centenario. Pitrè nomina scrupolosamente ogni fonte: a margine delle storie non manca mai di citare l’autore del racconto, o chi abbia contribuito a raccogliere quel testo offrendo uno spaccato di realtà che rende credibile l’autenticità della fonte: «Raccontata da Sara Barbiera, ragazza sui 30 anni, analfabeta, ai servigi della famiglia Crescenti»; oppure, «Raccontata da Giuseppa Todaro, venditrice di strutto, olio, sapone», e ancora, «Raccolta dal Sig. Avv. Pasquale Prestamburgo», e «Raccolta da me sui laghi di Ganzirri, in una gita al Faro». Mai approssimativo, Pitrè rimanda fedelmente agli autori orali, quasi sempre analfabeti, firmando i loro testi con la sua penna mentre, in altri casi, riconosce la collaborazione di amici complici dell’incessante e interminabile opera cui si è votato.

Più frequentemente si ascoltano voci femminili ma non mancano quelle maschili, così come, pur prevalendo le donne anziane se ne incontrano di giovani. Tra le narratrici di Pitrè si impone la presenza di Agatuzza Messia, che Italo Calvino chiama «cucitrice di coltroni d’Inverno al Borgo», e prima ancora donna al servizio di casa Pitrè, bambinaia e forse balia dell’autore. Colei che, a sentire Pitrè «ha ripetuto al giovane le storielle che aveva raccontato al bambino».

Raccontate come? Con l’immediatezza di chi ha interiorizzato la storia, il proverbio, la cantilena e la mette in scena con niente altro se non la forza del dialetto e l’agire del corpo che narra in perfetta sintonia con la voce da cui fluiscono parole-immagini. Così, in calce a una delle fiabe narrata dalla Messia, Il tignoso, il rognoso e il moccioso, compare una nota in cui Pitrè racconta che «la narratrice accompagnava con i gesti le parole dei tre: quando parlava il tignoso si grattava la testa con tutte e due le mani; alle parole del rognoso si grattava l’avambraccio sinistro con la destra; e per il moccioso, si strusciava l’indice destro sotto il naso». L’efficacia espressiva dell’oralità è oltremodo rappresentata dai tre ritratti resi con l’abilità del bozzetto che incarna il tipo teatrale, quasi fosse la recita del caratterista. Ma la pagina, come ben sapeva Pitrè, non può riprodurre l’ ampiezza comunicativa della narrazione orale nella sua componente umana, la parola scritta può solo testimoniare, stabilizzare il testo.

Preserva e difende dalla perdita di quella visionarietà e quell’universo di segni e di simboli che compongono la cultura orale ma non può tradurne la dimensione fluttuante, mobile, modificabile e performativa; il flusso inarrestabile dell’oralità cade sulla pagina e vi trova un approdo ma la potenza dell’invenzione imprevista e propria di ogni narratrice e di ogni narratore deve, forzatamente, riepilogarsi in un registro linguistico che tende a sacrificare, per sua natura, la corporeità giocata nell’interazione tra chi narra e chi ascolta.

Eppure, per merito della dedizione di Pitrè, gli stili del dire, dell’arte della pausa e del commento confidenziale con cui il narratore intermezza la trama, hanno trovato un codice di scrittura in cui si cerca di evidenziare il sedimentarsi di temi, icone, credenze della tradizione folklorica siciliana, nella rispettosa riedizione delle costanti che le versioni delle storie e delle fiabe conservano. La traduzione italiana di Bianca Lazzaro, che è curatrice della raccolta Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane, oltre che delle precedenti edizioni integrali dell’opera di Giuseppe Pitrè pubblicate da Donzelli, tiene rigorosamente conto «dei criteri grafici adottati da Pitrè nelle trascrizioni in siciliano (maiuscole, corsivi, virgolette, accapo…), nella convinzione che quelle scelte fossero motivate dal più rigoroso rispetto del parlato dei raccontatori e delle raccontatrici».

L’uso delle maiuscole – ad esempio per Re, Reginella, Conte, Mago, Morte – i vari protagonisti delle fiabe, evoca la centralità dei ruoli, e di grande interesse – dal punto di vista dello sforzo compiuto da Pitrè per rendere ascoltabile e visibile la narrazione scritta – «l’uso del corsivi individua in genere una particolare accentuazione del tono della voce del narrante, magari quando riferisce il bando di un re o la maledizione di una vecchia megera». Non è tutto. Di Cola Pesce, vera icona del folklore siciliano, si leggono 17 versioni della leggenda marina dell’uomo pesce, «essere intermedio» lo definisce Pitrè, e si tocca con mano il nucleo concettuale del principio di variazione su cui si fondano gli studi sul folklore: all’interno dell’ampio corpus narrativo tessuto intorno ai personaggi di Cola Pesce risalta la costante del protagonista metamorfico abitante di terra e d’acqua, e nel contempo si moltiplicano le versioni in cui quel motivo è libero di spostarsi nel flusso instabile e continuo della cultura orale.

Le varianti che hanno investito Cola Pesce e il mito di cui è metafora non sono mai riducibili a un solo testo ma guardano alla pluralità delle versioni, e ciò vale per ogni storia che provenga dall’espansione della letteratura orale. Sulle infinite vie dell’immaginario si incontrano dei Cola Pesce in Sicilia come in Nord Europa. Nelle illustrazioni di Fabian Negrin si riconosce un altro sintomo del potere di variazione proprio di storie che appartengono a chiunque le narri a suo modo: Pesce Cola è un bimbo che nuota sul fondo del mare di Messina, solo in parte rivestito di richiami alla sua natura marina: ci guarda con occhi enormi, stupiti, mentre le sue mani sono già pinne. In un’altra tavola è un ragazzino che si inabissa nel mare inseguito dalla maledizione materna che lo tramuterà in quell’essere intermedio di cui il folklore e l’immaginario si sono innamorati.

L’attrazione per esseri metamorfici e doppi, esploratori della misteriosa appartenenza all’unità delle cose tutte, del fondo del mare e del profondo oscuro dell’esistenza e del destino, si perpetua, dal dialetto siciliano fino all’illustrazione, che racconta a sua volta l’ennesima versione di una importante testimonianza della complessità di cui si sostanzia il tramandare della cultura orale.