In un breve passo del suo diario, Serge Daney, accennando alla differenza tra personaggio reale e personaggio storico, lascia intendere come ai fini dell’esemplarità politica, laddove l’urgenza e l’assillo del «che fare» significano tutto o quasi, il secondo sia non meno «veridico» del primo e anzi di gran lunga assai più efficace se non altro per quel dettato che intenda essere rappresentativo di un orizzonte chiuso in un tempo preciso e ineludibile, così da volerne estrarre il nucleo essenziale facendolo al dunque brillare di una luce pedagogica, pratica, emergenziale.
Questo paradigma lo si ritrova, espresso chiaro e tondo, in una nota che Lion Feuchtwanger siglò nel licenziare per la stampa I fratelli Oppermann (Skira «Storie», pp. 347, euro 19,00), romanzo uscito in Olanda nel 1933 e adesso ritornato nelle librerie italiane dopo quasi settant’anni nella versione (opportunamente riveduta e aggiornata) che Ervino Pocar approntò nel 1934 per la «Medusa» Mondadori e che tuttavia poi rimase inevasa e inerte nei cassetti della casa editrice milanese per dodici anni, quando finalmente apparve, a fascismo caduto e a guerra finita, nella celebre collana di narrativa – e a tale proposito impressiona, a causa della sua disarmante ingenuità, leggere oggi la lettera (riportata in appendice al volume) che il vecchio Arnoldo inviò a Galeazzo Ciano, allora a capo dell’ufficio stampa di Mussolini, per chiedere lumi ed eventualmente perché perorasse colà dove si puote la pubblicazione del libro; la risposta dell’impomatato conte in carriera, se ci fu, rimane sconosciuta, sebbene le risultanze di quel goffo tentativo parlino da sé.
Nella nota di cui si diceva, l’autore – il quale, non va dimenticato, «scoprì» Brecht nel 1918 e collaborò a lungo con lui, restandogli amico e sodale per sempre – scrive che «nessuno dei personaggi di questo libro è vissuto realmente nel territorio del Reich negli anni 1932-’33; tutti vi sono però vissuti nel loro insieme». E infine appunto precisa in maniera lapidaria: «Il romanzo intitolato I fratelli Oppermann non presenta uomini reali, ma storici». Ecco dunque lo stigma netto del romanzo militante, di pronto intervento, composto in presa diretta nel fuoco degli avvenimenti di poco anteriori e di poco successivi alla salita al potere di Hitler. La linea del romanzo-documento viene seguita alla lettera, nutrendo lo sfondo di dati dettagliati, minuziosi sulla vita quotidiana dei cittadini tedeschi in quel passaggio epocale che li vide vittime e complici dei lanzichenecchi (così li chiama lo scrittore), spettatori silenziosi e impauriti e vili lacchè di quel branco di lupi.
Ad esempio, i grafici in caduta libera della disoccupazione, il numero esatto dei negozi, delle aziende, degli studi professionali devastati in quel Sabato della Vergogna in cui ufficialmente si diede inizio alla caccia ai cittadini tedeschi di fede ebraica, la cifra dei delitti impuniti, delle aggressioni, degli assassinii, il racconto particolareggiato delle torture inflitte agli oppositori politici o presunti tali, della pratica della delazione e del tradimento, la corruzione morale e materiale dei graduati e dei semplici adepti delle milizie in camicia bruna, il funzionamento dei campi di concentramento e di «rieducazione» aperti un ogni parte del paese: di questo e di molto altro si nutrono le pagine di Feuchtwanger (nato a Monaco di Baviera nel 1884 e morto a Los Angeles nel 1958, per tradizione famigliare assai esperto del mondo e delle dinamiche del commercio industriale e insieme profondo conoscitore circa i riti e le consuetudini dell’ebraismo osservante) nel mentre si dispiegano, in una Berlino riprodotta nel più assoluto rispetto della toponomastica stradale, le vicende e le circostanze che portano al fulmineo dissolvimento dei fratelli Oppermann e delle loro rispettive famiglie, ultimi eredi di una ricca dinastia di mobilieri da sempre devota alla nazione e rispettosa delle sue leggi.
Feuchtwanger, per mezzo dei suoi protagonisti e del loro ambiente, mette in scena la morte del diritto, il sadismo elevato a legge, l’impunità e la protervia delle bande di linciatori che scorrazzano in una città che appare ormai ingrigita, tutta in ombra, vibrante di cieco odio, stretta in una parossistica danza macabra e i cui gloriosi bagliori (teatri, cinema, cabaret, luoghi della cultura) sono già ricordo, materia di sogno. Le strade e le piazze percorse e raccontate da Walter Benjamin e da Franz Hessel, addobbate di croci uncinate, sanno già di sudiciume e di putrefazione. Vi si bruciano invece i libri – quelli di Franz Werfel (che morirà anche lui a Los Angeles nel 1945), di Arnold Zweig, di Alfred Döblin (in esilio volontario negli Stati Uniti) e dello stesso Feuchtwanger, condannato inoltre a morte in contumacia, tutti autori peraltro accomunati da uno sguardo attentissimo alla storia e capaci di garantire qualità a grandi affreschi narrativi.
La scontro tra ragione e barbarie è netto, e attimo dopo attimo se ne avverte l’esito tragico, si direbbe scontato. Un simile slittamento appare più marcato in un personaggio che nell’economia del romanzo occorre definire minore. Il poeta e prosatore Gutwetter, l’uomo che pensa «per millenni», l’esteta che disprezza i fatti minuti, personali, transeunti, colui il quale si crede neutrale non essendolo di fatto, l’osservatore estatico che guarda come da fuori, ingenuo e astuto insieme, cosmico e dionisiaco, rivela come meglio non si potrebbe tutto il suo portato di cecità e di grottesca inettitudine spirituale. Egli è ovviamente uno stilista, un raffinato prosatore, un critico letterario di gran classe. La nascita dell’«uomo nuovo» lo emoziona, lo cattura. «Il dominio della fredda ragione sta per crollare», freme calmo il veggente, «si cerca di scrostare il balordo intonaco della logica». Ecco appunto, «la nazione sta per partorire dal suo grembo un nuovo grande tipo di uomo» e «noi abbiamo l’enorme fortuna di poter assistere alla nascita di questo embrione gigantesco, di udire il primo vagito del mostro magnifico». Si capisce come e perché Feuchtwanger renda grottesca la figura del letterato Gutwetter, il quale nutre (mentre se ne nutre a sua volta) il linguaggio del nazionalsocialismo.
L’autore di Süss l’ebreo (1925) è il suo esatto contrario, così attratto dall’evento spicciolo, dalle piccole vampate del quotidiano. Nel suo romanzo – dove c’è già tutto anche se tutto deve avvenire e il peggio ancora arrivare – egli sceglie di stare, insieme alla lotta e alla resistenza, con la bontà che nulla concede al nemico. Egli sta, ad esempio, con il giovane Berthold Oppermann, la cui mitezza implacabile finirà per condurlo (piuttosto che mentire e retrocedere) al trionfo della morte per propria stessa mano, dopo avere riletto Michael Kohlhaas di Kleist. Il ragazzo, nella sua ultima notte, contempla i libri allineati sugli scaffali e pensa che gli uomini che li hanno letti «sono la Germania» e che «gli operai che nelle ore libere frequentavano le Università popolari e si empivano la testa del loro non facile Karl Marx rappresentavano la Germania». Ma pure, osserva, le camicie brune e il Canzoniere nazionalsocialista erano la Germania. Questo gli pare insopportabile, questa la soglia che non si deve oltrepassare. Così, in nome degli antichi maestri, egli sceglie la soglia estrema, dedicando quel transito al Compagno Ignoto. «Abbiamo il compito di contribuire all’opera, ma non ci è dato di portarla a termine», afferma appunto il Talmud.