«Magnificenza della religiosità popolare», così definirei la mostra «Con Straordinario Trasporto», che riunisce per la prima volta: i Gigli di Nola, la Varia di Palmi, la Faradda dei Candelieri di Sassari, la Macchina di Santa Rosa di Viterbo, appartenenti alla «Rete delle Grandi Macchine a Spalla Italiane» patrimonio dell’UNESCO, e i Ceri di Gubbio il cui iter per essere riconosciuti Patrimonio dell’Umanità è in corso d’opera e di definizione. «Con Straordinario Trasporto» è allestita nella chiesa sconsacrata di San Sisto nel cuore di Milano, sede dello Studio Museo Francesco Messina, visitabile fino al prossimo 14 febbraio. È curata da Patrizia Giancotti (antropologa e fotografa), Patrizia Nardi (responsabile tecnico-scientifico progetti Unesco per la Rete delle Grandi Macchine a Spalla Italiane) e da Maria Fratelli (dirigente Case Museo Progetti Speciali Comune di Milano). Una mostra-evento dove, alle ‘Macchine a Spalla’ ‘ferme’ e prive dei corpi che le sorreggono e le vivificano durante il percorso, replicano le immagini tratte dai film di Francesco De Melis – compositore, etnomusicologo, regista : Un patrimonio sulle spalle prodotto dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia e «Prodigio in slow motion».

Quest’ultimo è dedicato alla Corsa dei Ceri di Gubbio e viene proiettato al ralenti, consentendo così di in-seguire dall’interno la frenetica corsa dei Ceri in onore di Sant’Ubaldo compiuta dalla collettività che sale fino alla sommità del Monte Ingino, dove sorge la basilica di Sant’Ubaldo. Le immagini filmiche creano un affresco digitale: grazie a compositi sistemi di proiezione a connotazione immersiva donano ai visitatori siffatti rituali simili e peculiari al tempo stesso; fanno, inoltre, da contrappunto alla fissità delle ‘Macchine a Spalla’ immobili esibendo un sacrificio sovrumano compiuto dai portatori, ovvero gli ’mbuttaturi di Palmi, i cullaturi di Nola, i facchini di Viterbo, i ceraioli di Gubbio, i gremianti di Sassari, le cui espressioni dei volti s’alterano trasfigurati per l’immensa fatica. L’etnomusicologo e antropologo Diego Carpitella (1924/1990) attesta che «l’antropologia visuale è parte integrante del documento etnografico, anzi si può dire che ne sia implicita, in quanto la maggior parte della produzione fotocinematografica e video di carattere antropologico si basa su cerimonie e riti di culture di trasmissione e mentalità orali, entro cui la musica ed il corpo hanno un ruolo preminente e vistoso». Potrei perciò dire che la mostra è una video-installazione multimediale che affronta lo studio delle ‘Macchine a Spalla’ mediante l’antropologia visuale, reputando tale studio una fonte essenziale d’informazione: testimonianze visuali, suoni, ritmo, immagini e dove il pubblico-comunità è parte integrante dell’azione performativa in atto. La festa è legata all’identità territoriale, al senso d’appartenenza, alla percezione di appartenere alla comunità del noi. Nel mondo contemporaneo è intesa in maniera più empirica e contestuale: un fenomeno collettivo che si relaziona dialetticamente con la vita quotidiana; una trasgressione paradossale dell’ordine sociale e della propria razionalità produttiva. Essa, dunque, esprime e conferma una dimensione chiave dell’esistenza comunitaria. È un momento ‘tangibile’ della comunità e non di evasione; ritrae una contraddizione in seno a una società che risulta divisa in due classi, di cui una indica potere e discriminazione, l’altra, invece, reca i segni di emarginazione, strumentalizzazione e annientamento da parte della classe egemone. «Le feste tradizionali – attesta Patrizia Giancotti – devono offrire qualcosa di straordinario. Ecco allora che il pericolo si trasforma in meraviglia. Tanto che i trasportatori ricevono una benedizione in articulo mortis per il rischio che corrono. È qualcosa che trascende il quotidiano e il razionale». Infatti, i corpi dei trasportatori col passare degli anni si deturpano, recano i segni della fatica: calli, bozzi o il cosiddetto ‘pataniello’ di San Paolino per i cullatori dei Gigli. Ai rituali partecipano ogni anno centinaia di uomini, che s’apprestano con eccitazione e fierezza a compiere l’impresa impossibile. Compiono manovre vitali e articolate per muovere le ‘Macchine a Spalla’: un patrimonio immateriale che svetta lungo vicoli spesso angusti e che a volte viene trasportato di corsa o in salita. Solo i corpi congiunti di centinaia di uomini rendono possibile la straordinaria impresa di muovere le ‘Grandi Macchine’. Alta 16 metri per 200 quintali di peso, nel caso della Varia di Palmi, la composita ‘Macchina Processionale’ festeggia l’Ascensione della Vergine Maria. Il carro votivo è un’immensa nuvola con astri rotanti che raffigurano l’universo e viene trasportato da duecento ’mbuttaturi. Su di esso trovano posto figuranti che rappresentano il Padreterno, gli Apostoli e gli Angeli; li sovrasta l’Animella, una bambina situata arditamente sull’estrema sommità della Varia, scelta per raffigurare la Madonna Assunta in Cielo. Quanto ai Gigli di Nola (25 metri d’altezza per 30 quintali), il mito di fondazione si rinviene nella storia del vescovo di Nola, San Paolino, patrono della città, che miracolosamente riportò in città sani e salvi i concittadini fatti prigionieri dai Visigoti. Sono otto strutture realizzate con legno e cartapesta, una per ogni antica corporazione di mestiere (ortolano, salumiere, bettoliere, panettiere, beccaio, calzolaio, sarto, fabbro). Sono le ‘paranze’ che, grazie a 120 cullatori, trasportano i Gigli muovendosi a passo di danza e al ritmo incessante di musicisti e cantanti collocati sulla base quadrangolare di ognuna delle altissime strutture. Ogni anno il 22 giugno, la processione musicale degli otto Gigli procede per le vie della città fino alla grande piazza dove c’è l’incontro con la mitica Barca di San Paolino, rievocazione di quella barca sulla quale il santo fece ritorno in città. «Quello che muove le ‘Grandi Macchine’ è un impeto comune che le conduce alla meta. Sono la metafora dell’impresa impossibile», sostiene la Giancotti.

È la sacralizzazione del ‘Tempo-Festa’ che detta le coordinate con cui il rito viene interiorizzato e gestito dalla collettività subalterna in un contesto circolare del tempo definito ‘hohe Zeit’, che si differenzia dal tempo lineare presente nel pensiero della classe egemone. Una mostra intesa come «macchina mitologica» che trasmette e amplifica la forza mitopoietica-poetica: la incorpora per riprodurla, per rigenerare mitologie, racconti, narrazioni, figurazioni artistiche, simboliche, immaginarie delle ‘Macchine a Spalla’. Aggiungerei ‘teatrali’ dal momento che i portatori adottano un linguaggio, una drammaturgia sui corpi incardinata sugli aspetti cinesici, prossemici, coreutici, sul somatismo violento, sulla corporeità che danza a ritmo serrato verso il parossismo, evidenziando in tal modo la poetica aristocrazia che connota la gestualità delle classi rurali e popolari in una dimensione dionisiaca che sommuova l’istante, scardinando l’ordinario scorrere del tempo. Una mostra, una video-installazione concepita come spazio della memoria collettiva da tutelare; che crea una «rottura dei livelli», per dirla con lo storico delle religioni e antropologo romeno Mircea Eliade (1907/1986); dove in un contesto metastorico s’elude sia l’imbalsamazione culturale di tali rituali o, peggio, una loro manipolazione e mercificazione con finalità economiche e di mercato imposte dall’imperante economia neocapitalista.