Dopo sei notti di guerriglia urbana, nonostante i minacciosi discorsi del premier Erdogan, Ankara ha vissuto una liberatoria notte di festa. Circa diecimila persone si sono assiepate a Kugulu Park, il parco dei cigni, diventato una versione in piccolo di Gezi Park, con tende e striscioni. Come a confermare che l’essenza della protesta riguarda la libertà d’espressione, la folla si è lasciata andare alla gioia, col sollievo per poter urlare quello che per anni è stato solo sussurrato.

La polizia è stata discreta, controllando a distanza i punti strategici, in una città tra le più telesorvegliate del mondo. Manifestanti isolati o in gruppi convergevano verso il parco, tra voci di incidenti. Ma non ci sono state cariche, nemmeno a Dikmen dove un gruppo di qualche migliaio di persone è stato tenuto a distanza con lanci di lacrimogeni. Purtroppo le notizie dal resto della Turchia, lontano dagli occhi dei media, non erano altrettanto buone. È stata dichiarata la morte cerebrale del giovane colpito alla testa da un lacrimogeno a Istanbul. Un poliziotto è morto cadendo da un ponte ad Antalya. Secondo il suo migliore amico, che era con lui, era sfinito dai turni massacranti dei giorni scorsi.
La notte di Ankara è stata festosa comunque. Memoriali con candele e foto delle vittime erano lo sfondo di danze tradizionali, con gli immancabili suonatori rom. Nel pomeriggio, un’intervista di Erdogan aveva suscitato il timore che i supporter del primo ministro attaccassero i manifestanti, riportando il paese nell’incubo degli Anni di Piombo.

Come ogni giorno, da lunedì, le giornate passano in attesa: alle 21, di giovedì, per un’ora, i turchi che vogliono essere ascoltati dal capo del loro governo battono pentole, suonano trombe, clacson, vuvuzelas, padelle, fischietti o semplicemente urlano gli slogan della protesta. La protesta si ferma in orari di lavoro: è animata in particolare dai trentenni delusi dall’Akp del rinnovamento interrotto, se non tradito, dall’autoritarismo di Erdogan. Ma guai a chiamarla rivoluzione: «Non vogliamo cambiare il sistema, vogliamo che il sistema torni a funzionare! Abbiamo delle leggi, ma vengono applicate solo a chi vogliono loro», sono in sintesi i discorsi dei manifestanti.

Ma nella notte, la doccia fredda.Al suo ritorno da una visita in Nordafrica, Erdogan è stato accolto all’aeroporto da 10mila attivisti del suo partito (100 mila secondo la tv di stato). Il suo discorso, trasmesso in diretta, ha raggelato il paese. Ignorando gli appelli del suo Vice e le rassicurazioni del Presidente Gül sul rispetto delle libertà costituzionali, ha sferrato un violentissimo attacco ai manifestanti, ha intimato la fine delle proteste, ha chiamato «martiri» i poliziotti coinvolti nelle proteste e ha decretato che il poliziotto caduto dal ponte è stato spinto. La folla intanto cantava «Allahu Akbar», «Romperemo le mani che toccano la nostra polizia», «Andiamo a radere al suolo Taksim», mai interrotta dal primo ministro.

È stato poco meno che un’incitazione alla guerra civile, con qualche appello alla calma qua e là. Ha accusato agenti stranieri, Twitter e i giornalisti stranieri (in un paese dove pochi leggono l’inglese) di strumentalizzare le proteste. Alla fine ha concluso quello che molti considerano il primo comizio della sua campagna presidenziale invitando la folla ad andare a casa perché «noi non siamo vandali»,

Oggi, mentre dimostranti e polizia dimostravano maggior freddezza del loro premier, Erdogan ha di nuovo difeso l’operato della polizia, citando come esempio Occupy Wall Street dove, secondo lui, ci sarebbero stati 17 morti. L’ambasciata statunitense ha smentito seccamente.

La sera del primo venerdì dall’inizio delle proteste preannuncia un’altra notte insonne. Vedremo se i turchi sapranno restare uniti, o cederanno alla retorica del premier, non più tanto moderato. Stasera le pentole tacciono.