Il Festival di Roma è finito, Marco Müller ha salutato il pubblico e la capitale dal palco durante la cerimonia di premiazione ma che questa fosse la sua ultima edizione era già scritto prima che cominciasse. Il gioco del totonomi ha imperversato sui media con più attenzione dei film, come una certa poesia da «carte stracce e foglie al vento» che vede nel Festival la metafora dell’abbandono in cui versa la città.

É vero, nulla più di questo Festival nello «struscio» lungo i corridoi umanamente poco accoglienti – come vuole il miglior stile Piano – esprime la «romanità» nei suoi vezzi insopportabili o divertenti o paradossali che dir si voglia, ma non è certo questo il suo problema.

Il «peccato originario» è piuttosto il legame con la politica, di cui riflette alla perfezione le abitudini, che a liberarlo dal proprio controllo non ci pensa affatto. Così come quella distanza tra politici e cittadini che qui si traduce nel «binario parallelo» su cui viaggiano da un parte i conflitti interni, dall’altra il pubblico che si gode i film, se ne va a passeggio, si incontra sul tram per dirigersi verso le sale anche al mattino (magari complice la diffusa disoccupazione).
Del resto è stata la politica a creare l’evento nelle figure di Veltroni, allora sindaco di Roma, e di Goffredo Bettini: era solo l’amore per il cinema a muoverli o qualcos’altro?

Visto l’andamento di questi anni la domanda risuona più che retorica. La politica, con qualsiasi giunta, ha sempre deciso le sorti e gli orientamenti del Festival e i suoi direttori al di là delle loro oggettive capacità perché c’era, e c’è sempre qualcos’altro a cui riferirsi. Cosa francamente non si è capito, anche perché l’interesse della politica poco si sposa con l’espressione di una vera « politica culturale».

E se il centrodestra di Alemanno e Polverini amava l’esibizione a gamba tesa – scegliendo peraltro un ottimo nome come quello di Müeller – il centrosinistra che oggi rivendica un Festival/festa popolare, sappiamo purtroppo che ha sempre sbagliato nell’interpretazione di entrambi. Quest’anno nel budget è entrato anche il ministero, e Franceschini ha sostenuto a sua volta l’esigenza di una virata alla Festa e al popolare. Di nuovo: cosa vuol dire? Per fare un esempio, Phoenix di Christian Petzold ha fatto il sold out alle dieci di sera, eppure Petzold che è un regista bravissimo non è certo molto conosciuto in Italia. Se poi il film esce in sala magari non lo vede nessuno, la logica dell’evento domina, lo sappiamo, ed è magari su questo che bisognerebbe intervenire con una più efficace politica culturale.

Müller è un professionista di alto livello, su questo non vi sono dubbi, ha fatto questo lavoro per una vita intera e in modo ottimale. Vale per Rotterdam, Locarno, Venezia e anche per Roma malgrado tutto.
Certo è che per fare un festival, cambiata la giunta, da Alemanno/Polverini a Marino/Zingaretti, finanziatori come comune regione e provincia della manifestazione, e il governo si doveva ricostruire una relazione. Però non si è approfittato del talento di un professionista, preferendo aprire la guerra esacerbata anche dai problemi economici (budget di oltre cinque milioni di euro).

Mentre ciascuno dava e dà la sua ricetta, più mercato o meno mercato, troppo cerebrale o troppo poco. Ma un festival, anche se per la città, anche se non ha anteprime mondiali come per esempio il London Film festival, deve per natura mischiare le carte, esplorare le diverse declinazioni del cinema, divertire e divertirsi, e gli Hunger Games dello scorso anno stanno bene insieme all’Andrea Tonacci (capolavoro) di quest’anno. È banale persino discuterne. Se provassimo invece a liberarlo (un po’) da giunte politici e quant’altro?