Leggere il libro di Lorenzo Giannini Siamo tutti volontari. Etnografia di una Festa de l’Unità tra retoriche e pratiche (Franco Angeli, euro 19) richiede la pazienza che si è obbligati a porgere a un argomento importante condotto in modo scientifico, mai preda di conformismo, emozione facile, tendenza agiografica, superiorità o, peggio ancora, di quella sciatteria che troppo spesso connota la scrittura dedicata a fatti politici considerati ormai accessori.

LA PRIMA PARTE del libro è un’accurata tessitura di fili antropologici, sociologici, etnografici e filosofici che descrivono tutte le coordinate necessarie per intendere cosa sia una festa di popolo, quand’anche una festa con caratteristiche così precise come può essere una festa di partito. Impossibile citare l’enorme e utile bibliografia che l’autore usa come ordito della sua ricerca affinché il lettore intenda uno degli accadimenti sociali, collettivi più incisivi e più significativi della seconda metà del 900 italiano, la Festa dell’Unità appunto. Fino ad assumerne una come laboratorio, quella del 2008, quella che più racconta un cambiamento radicale, definitivo e per certi aspetti drammatico. Dentro l’osservazione attenta di tipo etnografico della preparazione dei tortellini, si concentra l’esame e la storia di un definitivo mutamento sociale. Il buco intorno a cui si racchiude una delle più amate pietanze italiane è un cannocchiale per una essenziale valutazione storica.

IL LIBRO, nella valutazione scientifica di quella festa non dà giudizi storici o di valore ma invita il lettore a compiere lo sforzo di farlo, pone di fronte a un mutamento sostanziale che non riguarda solo il gruppo sociale direttamente interessato, piuttosto riguarda la storia del Paese tutto. Dentro Siamo tutti volontari, dentro quella Festa dell’Unità c’è la storia della mutazione da militante a volontario. Preparare tortellini, spillare ettolitri di birra, passare le notti a pulire ma anche obbligarsi ad ascoltare dibattiti complicati, accogliere difficili proposte di comunismi «altri», dover ascoltare Luigi Nono che spiega la sua complicata avanguardia dicendo «La cultura comunista è un fatto serio, è un fatto (…) che impegna la grande intelligenza. Può essere difficile, ma ricordatevi che abbiamo bisogno di tutta l’intelligenza nostra» mentre si pensa a una bella mazurka che pure arriverà, ebbene tutto questo rientrava nel campo della militanza.

SE, COME SCRIVE GIANNINI, la Festa dell’Unità sembra nascere come una macchina per l’approvvigionamento economico, lo studio dei suoi meccanismi ne permette lo spostamento, seppur sincrono con quel bisogno primario, dentro la creazione di una egemonia, di una pratica che, nel tempo, imparò un dialettico confronto con il senso comune degli italiani, cercando di costruire un’alternativa ideologica che se accettava il sogno di possedere una lavatrice o ascoltare Gianni Morandi, tentava d’altronde di creare anticorpi ideologici e culturali a quelle aspettative di consumo. Oggi si può pensare che la dialettica era tra due smisurati, non equilibrati poli attrattivi. Venendo meno la figura del militante, di chi all’ombra di quella dialettica organizzava una lotta anche a base di vino, tortellini e complessità, nasce la figura del volontario che certamente non prenderà compensi, ma è un signore in pensione che organizza la grande distribuzione perché quello è stato il suo lavoro, sono impiegati delle poste non iscritti al Partito, ma che trattengono dei tempi andati la parte non di adesione ideologica, quanto quella festosa, conviviale. Insomma, ci si trova nel campo dell’esperienza semi lavorativa valida sia nel senso di chi la fornisce che di chi la acquista e che tende a cancellare anche l’eventuale provenienza dalla struttura ideologica e di appartenenza o al vecchio Pci, o comunque comunista. Il volontario non vuole far parte di un modello politico ormai decisamente liquido, agisce in un campo di prova e non intrattiene che un labile rapporto con il capitale simbolico della Festa.
Scrive Giannini il lavoro gratuito come dispendio di sé diventa negazione e liberazione dal principio che regola il lavoro come merce; interessante è la valutazione di quel passato dispendio di sé nell’ottica antropologica del dono maussiano in cui il ritorno di quel dono era la certezza dell’appartenenza, sottolineata dall’assoluta differenza con il sistema lavorativo che si svolgeva fuori dalla festa. Tutto questo non può più accadere in un sistema capitalista ancora più arrogante in cui il lavoro gratuito, quello senza orario, quello senza garanzia, quello che richiede un dispendio di cura che va a formare plusvalore è la normalità anche per chi recluta per la festa.

LA FRATTURA che segnava l’atto di militanza alla Festa assumeva una valenza liminoide a quei giorni passati dentro un potente recinto simbolico, una valenza dove era possibile progettare, nel momento ludico, performativo e con una componente di maggiore libertà, diversi modelli economici, esistenziali, sociali verso cui la tensione della pratica politica poneva l’obiettivo del cambiamento. Il crollo del sistema valoriale e di riferimento, il dispendio di sé diventata una dolorosa, quanto quotidiana pratica, hanno cancellato l’idea di dono come ricompensa, per gli estranei incomprensibile soddisfazione per chi usciva stremato da quei giorni. Come appunta Giannini in una osservazione di campo durante la ricerca mi sembra totalmente assente qualsivoglia riferimento a questioni politiche» al punto che gli verrà risposto, si badi durante l’organizzazione della Festa, «meglio non rinvangare la storia». No, non è affatto meglio.