I grillini sfilano in riga sotto il naso di Anna Finocchiaro, piantata di guardia al centro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non partecipare al voto sulla riforma costituzionale. I leghisti si sorbiscono tutto il dibattito, ma vanno via alla fine per permettere a Calderoli di distinguersi: il relatore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è contro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono caricati il peso dell’ostruzionismo, i non convinti del Pd, i frondisti di Forza Italia. Così la riforma «storica» del senato chiude il primo giro senza nessun voto contrario. Ma con tanti voti favorevoli in meno.

L’ultima e più importante di duemila e trecento votazioni ferma i sì a quota 183, più vicina alla soglia minima indispensabile per una legge costituzionale (161) che a quella di sicurezza per evitare il referendum (214), quando arriverà la quarta lettura. Alla maggioranza del patto ri-costituente mancano una cinquantina di voti: i «dissidenti» annunciati si confermano – 19 berlusconiani e 16 democratici – in più si contano una quindicina di assenti, numerosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha promesso la graziosa rinuncia alla maggioranza dei due terzi, per permettere il referendum confermativo. Il tabellone del senato dice che quella maggioranza non ce l’ha.

Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evidenti rimasti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei deputati, lasciano prevedere qualche modifica alla camera; la legge dunque dovrà tornare al senato. La pausa di riflessione imposta dall’articolo 138 della Costituzione e il referendum finale faranno il resto: della riforma si parlerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Nazareno dovrà dare prova di resistenza, sempre che non venga allargato anche al resto dei dossier (più) urgenti. Un’eventuale campagna per il no al referendum partirebbe in salita, ma potrebbe insistere sull’immunità (impopolare e non abolita) e sul voto diretto (più gradito, ma cancellato). «Il governo – prevede la capogruppo di Sel Loredana De Petris – si aspetta un plebiscito ma non è detto che vada così».

Nel frattempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma renziana, tra questo autunno e la prossima primavera gli italiani eleggeranno la gran parte dei consigli regionali e molti sindaci, senza sapere se stanno contemporaneamente selezionando i futuri senatori. Lo prevede il testo approvato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in condizione di accedere «con uguaglianza» alle cariche elettive. Le disposizioni transitorie potrebbero essere corrette, eliminando la lotteria della prima volta per una vera elezione di secondo grado, ma per farlo bisognerebbe rinviare di cinque anni la tanto acclamata trasformazione del senato. È questa una delle tante incongruenze pratiche che originano nella trasformazione dei consiglieri regionali e dei sindaci in legislatori, il pasticcio dell’immunità è solo quella più evidente.

Un’altra incongruenza è quella che denuncia il senatore Chiti, il più esposto dei 16 «dissidenti» Pd. Lungi dal «rappresentare le istituzioni territoriali», i senatori-consiglieri saranno selezionati dai capi partito e nel nuovo senato replicheranno la divisione in gruppi (anche se la riforma elude il problema, non prevedendo la proporzionalità di rappresentanza nelle commissioni). Infatti un emendamento che avrebbe obbligato tutti i rappresentanti di un territorio a votare allo stesso modo – un po’ come nel Bundesrat tedesco – è stato respinto dalla maggioranza. Anche su questo tema però molto è rinviato al futuro: approvata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere – con il vecchio o magari con il nuovo regime parlamentare – a dover scrivere le regole per le elezioni di secondo grado.

Magari anche questi «dettagli» successivi saranno affidati a un patto a due; visto che come da riassunto del capogruppo di Forza Italia Romani «questa riforma porta le firme di Renzi e Berlusconi» – niente male per il più solenne degli atti parlamentari. C’è per esempio una porta socchiusa per il referendum propositivo, che viene solo nominato nella nuova Carta ma che potrebbe essere sviluppato, con legge costituzionale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Calderoli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna materia» può suonare preoccupante. Altre però sono le preoccupazioni immediate. Alla camera, in autunno, si ripartirà dal tentativo di correggere il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, che al momento è nella disponibilità della maggioranza dopo le prime otto votazioni. E assieme al Quirinale, per il primo partito, c’è un altro omaggio: la possibilità di indicare 8 giudici della Corte Costituzionale, su 15.