Non aveva tutti i torti Georg Cristoph Lichtenberg nel dire che la prefazione è il parafulmine di un libro: quella di Tutto il tempo del mondo, terza raccolta di racconti di E. L. Doctorow (traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori pp. 262, euro 20,00) è quasi disarmante nella sua franchezza. Mette a confronto la natura «generativa» del romanzo («un’esplorazione. Scrivi per scoprire cosa stai scrivendo») e quella invece più immediata dei racconti, in cui il peso delle frasi è tutto: «Non si tratta di trovare la strada che porta a loro; sono già qui senza che tu li abbia sollecitati, più o meno completi, e ti impongono di accantonare tutto il resto e scriverli, prima che svaniscano come svaniscono i sogni». Poi, riconoscendo il carattere decisamente composito di questa raccolta di dodici pezzi narrativi scritti in periodi molto diversi della sua vita, lo scrittore ammette di non avervi ritrovato un campionario di umanità degno degli apici della tradizione di questo genere in America, per esempio Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson.

Doctorow è una presenza costante e di assoluto rilievo nel panorama letterario degli Stati Uniti, e la sua fama riposa stabilmente fin dai primi anni sessanta su un pugno di romanzi che hanno marcato la sua attenzione ai mutamenti politici e sociali e alle sfaccettature dell’anima americana: dal Libro di Daniel, portato sullo schermo da Sidney Lumet, al celebre Ragtime del 1975 (da cui fu tratto il film di Milos Forman). Si è evidenziato spesso come la sua scrittura riesca più elaborata e vitale quando sia calata nelle ambientazioni storiche: per esempio nel più recente La marcia, impegnativo affresco dedicato alla Guerra Civile, che ha rilanciato lo scrittore dopo un calo di intensità rispetto ai fasti dei suoi capolavori; ma se è vero che il discorso del e sul presente si incista in ogni rappresentazione del passato, a Doctorow va stretta qualunque definizione di genere, a partire dall’etichetta di scrittore storico. Lo hanno definito anche scrittore politico, neogotico, postmoderno, ma una volta dichiarò, tra il serio e il faceto, che avrebbe preferito l’attributo di «scrittore geografico», alludendo alla sulla estrema disponibilità immaginativa, in grado di scorrere nelle vene dell’America varcando liberamente i confini tra gli Stati per cogliere le varie voci di una umanità in cerca di giustizia.

Anche questi dodici racconti, nella loro eterogeneità di ispirazione, lo dimostrano: si va dagli ambienti rurali a New York, dalla provincia profonda e dai classici sobborghi sonnolenti alle atmosfere più spericolate del Sud. A dare il tono fondamentale a Tutto il tempo del mondo è il primo pezzo, intitolato significativamente Wakefield, una riscrittura che è un palese omaggio al memorabile racconto di Nathaniel Hawthorne. Howard Wakefield è anche lui un uomo sposato con figli, «in the meridian of life», che a un certo punto, senza alcuna premeditazione, semplicemente sparisce dalla sua tranquilla vita familiare e diviene un reietto che vive come un barbone, nascosto a due passi dalla propria stessa casa. È uno dei punti di contatto fra le varie storie accolte in questo volume: al centro del racconto c’è quasi sempre un individuo che si fa da parte, confliggendo con il sistema in cui era vissuto fino ad allora, e affrontando il rischio di perdere il proprio posto nel mondo senza averne un altro.

Wakefield, con il suo atto rivoluzionario, ha a che fare più con una distrazione misteriosa che con una scelta, e – come l’altro protagonista di uno dei racconti migliori del libro, Edgemont Drive – si trova a incarnare l’estraneo, quella figura che ossessiona i pensieri della tranquilla America dei suburbia. Dotato di un carisma quasi magnetico, l’estraneo di Edgemont è l’uomo che aveva vissuto tutta la vita nella casa ora abitata da una coppia con figli: la sua presenza piomba come qualcosa di sacro e di profetico nel ménage familiare, mettendone a nudo l’infelicità e rischiando di incrinare quell’esistenza esatta come un orologio. L’uomo enigmatico, professore in pensione e poeta sconosciuto, si fa portatore della saggezza di un’esperienza individuale, sopraffatta dal mondo ma infine pacificata; eppure marito e moglie non sanno cosa farsene.

Il tempo segna l’usura dell’esistenza, «come se la vita fosse diventata lisa, con la luce che ci passa attraverso. All’inizio si manifesta a sprazzi, l’estraniamento, in piccoli giudizi taglienti che cerchi subito di allontanare. Li rinneghi eppure ti affascinano. Perché è la sensazione più sincera che una persona possa provare, e quindi continua a tornare, a tornare, aggirando le tue difese finché non si posa su di te come una luce fredda, gelida».

È da incrinature come questa che Doctorow può aprire la sua curiosità a una meditazione sul sacro totalmente laica: per esempio nel Furto (il germe da cui si svilupperà il romanzo La città di Dio, uscito nel 2000) o in Walter John Harmon, penetrante incursione nella mentalità e nel mondo di una piccola comunità di fanatici religiosi guidata da un sedicente profeta. Anche lui avrà il suo momento di ribellione: del resto si sapeva che, nuovo Mosè, si era fatto carico di tutti i peccati dei suoi seguaci e aveva annunciato che non sarebbe entrato nella Città celeste. In un processo di autosuggestione collettiva, il suo tradimento viene letto paradossalmente come il realizzarsi di una profezia attraverso la propria negazione, e il racconto si chiude proprio mentre la setta sta per prepararsi alla lotta finale con il mondo.

Forse è sacra anche l’immagine che ossessiona il giovanissimo Willi in un altro racconto fra i più brillanti: l’immagine è quella dell’«avvampato corpo senza testa» di sua madre, «costretta a cantare il proprio degrado» nella Galizia del 1910. Ma poi si scoprirà che è proprio lui, Willi, la pietra dello scandalo, anche se di una cosa è sicuro: «Tutto sarebbe andato distrutto comunque, anche senza di me».

A ben vedere, la varietà estrema è tanto una peculiarità di queste srtorie quanto un loro potenziale tallone d’Achille. In alcune non si ritrova un Doctorow all’altezza del proprio ideale, quello di una scrittura che non riceve il proprio mondo in parole «pre-scritte» ma lo crea nel momento stesso in cui si sviluppa («Come si fa a conoscere quel che si conosce fin quando non lo si è scritto? Scrivere è conoscere. Cosa conosceva Kafka? Le assicurazioni?»). Se c’è un sapore classico nel narrare breve di Doctorow, sta nell’equilibrio della sua costruzione, nella pacata ironia che lo sostiene, ma anche nell’inevitabilità con cui il racconto si avvia verso il proprio destino. E a volte, come in Integrazione – storia di un matrimonio combinato sospinto verso un futuro paradossale – la tensione non ha fatto che accrescersi, ma il racconto si chiude senza risoluzione: il lettore viene lasciato sulla soglia di uno sviluppo ulteriore, un attimo prima dello scatenamento del conflitto, il cui esito non è, e non può essere, preannunciato da alcun indizio. Questo modo di condursi sarà forse sottilmente ironico (si sa ad esempio che Richard Yates aveva appeso, a titolo di memento o meglio cave perenne, davanti al suo tavolo la frase «Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine»); o sarà per Doctorow un modo di seguire secondo il proprio estro l’esempio di Hawthorne, che abbandona il suo Wakefield di ritorno sulla porta di casa, offrendo al lettore molti spunti di pensiero che solo in parte potranno essere espressi in una forma. Il resto rimane sospeso nell’apparente confusione di un mondo misterioso che dobbiamo pur sempre credere nostro.

Foto di apertura tratta da American Prospects, Joel Sternfeld, 2012